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Santi del 26 Novembre

Il mio Santo > I Santi di Novembre

*Sant'Alipio (Stiliano) lo stilita - Anacoreta (26 novembre)
Adrianopoli (Paflagonia), 515 ca. - † 614 ca.
È conosciuto erroneamente come Stiliano il Paflagone, nome che gli derivò dal fatto di essere uno "stilita" (un asceta, che per penitenza viveva in meditazione sulla sommità di una colonna isolata o di vecchi ruderi).
Il primo stilita fu San Simeone il Vecchio (V secolo) che ebbe numerosi imitatori fra gli anacoreti orientali. Alipio nacque nel 515 ad Adrianopoli in Paflagonia (regione dell'Asia Minore) e a tre anni rimase orfano del padre. Fu così mandato dal vescovo Teodoro per essere istruito.
Venne nominato diacono ed economo della Chiesa di Adrianopoli, finché a 30 anni volle ritirarsi in solitudine, chiudendosi in una cella, dove rimase per due anni. Infine salì su una colonna fuori dalla città.
Il suo ascetismo attrasse attorno alla colonna molti discepoli.
Alipio decise quindi di fondare due monasteri, uno maschile e uno femminile.
Sembra che Alipio sia rimasto in piedi sulla colonna per 53 anni. Poi colpito da paralisi alle gambe, restò per altri 14 anni disteso su un fianco, finché morì a 99 anni verso il 614. (Avvenire)
Etimologia: Alipio = che ha le ali ai piedi, dal latino
Martirologio Romano: Ad Adrianopoli in Paflagonia, nell’odierna Turchia, Sant’Alipio, diacono e stilita, che morì quasi centenario.
Sant'Alipio stilita è conosciuto erroneamente anche come Stiliano il Paflagone, nel precedente Martirologio Romano, egli era ricordato con questo nome, ma nella nuova edizione, il nome Stiliano è scomparso, mentre è rimasto Alipio.
Evidentemente stiliano era un aggettivo di riconoscimento del Santo, essendo uno stilita, nome che veniva dato agli asceti cristiani, che per penitenza vivevano in meditazione sulla sommità di una colonna isolata o di vecchi ruderi (stilita dal greco stylos = colonna).
Il primo stilita fu San Simeone il Vecchio (V secolo) che ebbe numerosi imitatori fra gli anacoreti orientali, soprattutto della Siria e della Mesopotamia (San Daniele, San Simeone il Giovane, ecc.).
Soggetti alla venerazione popolare gli stiliti venivano frequentemente visitati dai discepoli.
Rari furono invece gli stiliti in Occidente, dove ebbero diffusione altre forme di ascesi.
Sant'Alipio nacque nel 515 ca. ad Adrianopoli in Paflagonia (regione storica dell’Asia Minore, provincia romana nel III secolo); già prima della nascita, la madre ebbe una visione premonitrice della gloria
futura del nascituro; a tre anni rimase orfano del padre, venne inviato giovinetto al vescovo Teodoro per istruirlo.
Venne nominato diacono ed economo della Chiesa di Adrianopoli (nell’odierna Turchia), finché a 30 anni manifestò l’intenzione di ritirarsi in solitudine, chiudendosi in una cella, dove rimase per due anni, poi salì su una colonna posta fuori dalla città.
Il suo ascetismo estremo radunò man mano, attorno alla colonna, un gran numero di discepoli e quindi Alipio poté così fondare due monasteri, uno maschile e uno femminile. Viene raccontato che una luce discese dal cielo sul Santo e che ebbe la facoltà di predire il futuro e guarire gli ammalati; sembra una favola ma Alipio rimase in piedi sulla colonna per 53 anni, poi colpito da paralisi alle gambe, restò per altri 14 anni disteso su un fianco, finché morì a 99 anni verso il 614, durante il regno di Eraclio I (610-641) imperatore di Bisanzio.
Si racconta che un invasato fu liberato dal suo male, accostandosi alla sua tomba.
La reliquia della sua testa si trova in un monastero del Monte Athos, al quale nel 1428 furono unite le comunità fondate da Sant'Alipio lo stilita.
A lui fu dedicato un monastero a Costantinopoli e venne raffigurato in un mosaico insieme a San Simeone, nella basilica di S. Marco a Venezia.
La sua “Vita” ci è giunta raccontata da vari autorevoli autori dell’antichità; con il nome di Stiliano, Sant’ Alipio è invocato contro la sterilità.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Sant'Alipio lo stilita, pregate per noi.

*Sant'Amatore di Autun (?) – Vescovo (26 novembre)  

Emblema: Bastone pastorale
Il Martirologio Geronimiano il 26 novembre ricorda ad Autun la “depositio sancti Amatoris episcopi” e il 1° maggio ad Auxerre ugualmente la “depositio sancti Amatoris episcopi ”.
Poiché nella commemorazione del 26 novembre la voce “episcopi” è omessa nel codice Epternacense e il Geronimiano appare manifestamente mendoso, i Bollandisti, nel commento al Martirologio Romano, esprimono l'opinione che Amatore, vescovo di Autun, non sia mai esistito e che l'autore del Geronimiano abbia per errore scritto Augustoduni in luogo di Autissiodori.
Anche il Baronio mostra di credere poco all'esistenza di questo vescovo di Autun.
A ciò si aggiunga che la notizia di una sua corrispondenza col Papa Silverio (536-37) è leggendaria.

(Autore: Hubert Claude – Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Sant'Amatore di Autun, pregate per noi.

*San Banban di Lethglenn – Vescovo (26 novembre)

Tranne che nel Martirologio di Tallaght, in cui è una lacuna, a questa data in tutti i martirologi si celebra la festa di un Banbán che è detto dai glossatori vescovo di Lethglenn (Leighlin, Carlow).
In una glossa al Fétlìre Hui Gormáin si legge che B. era dei Corcu Duibne e, se questa nota è esatta, il Santo è, da identificarsi con Banbán figlio di Donngal, la cui genealogia sembra essere molto antica (cf. Corpus genealogiarum Mbernicarum, ed, M. A. 0' Brien, Dublino 1961, p. 307).
Questo Banbán era degli Huí Chorbbáin, una suddivisione dei Ciarrige, e è detto deciino discendente da lmchad mac Ambrit. Flann Feórna, nono discendente dallo stesso stipite, inoril nel 741 e gli Annala rioghachta Eireann (ed. j. 0' Donovan, Dublino 1848-51), ricordano la morte di un Banbán al 777, data che potrebbe adattarsi al nostro santo. Tuttavia, gli stessi Annali aggiungono che questo Banbán era abate di Claenad (Ciane, Kildare).
Nella genealogia di Banbán, figlio di Domigal, che fu tolta dal contesto originale e posta tra quelle dei santi (cf. The Book of Leinster [facsimile], Dublino 1880), Angán è il nome del primo antenato citato, e erroneamente si è creduto di poter identificare Angán con Andgán, figlio di Fiachu Suidge, facendo così di B. uno dei Déissi Muman (cf. Genealogiae regum et sanctorum Híberniae, ed. P. Walsh, Maynooth 1918, p. 7 6).

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Banban di Lethglenn, pregate per noi.

*San Bellino di Padova – Vescovo (26 novembre)

m. 1147
Etimologia:
Bellino = gentile, grazioso, dal latino
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Nella selva presso Fratta nel territorio di Rovigo, passione di san Bellino, vescovo di Padova e martire, che, insigne difensore della Chiesa, crudelmente aggredito dai sicari, morì per le molte ferite subite.
Della famiglia padovana dei Bertaldi, compare la prima volta in un documento del 1107 come canonicus presbiter. Erano anni tristi quelli per la Chiesa padovana. Il suo vescovo Milone, fautore dell'imperatore Enrico IV, aveva aderito all'antipapa Clemente III.
Gli successe nel 1107 l'arcidiacono Pietro, che dieci anni dopo, deposto e scomunicato dal papa Pasquale II nel concilio di Guastalla (22 ottobre 1106), si ritirò con gran parte dei canonici nel feudo vescovile di Piove di Sacco.
Invece Bellino aderì al nuovo vescovo Sinibaldo, eletto e consacrato dal papa stesso. Quando nel 1110 scese in Italia Enrico V e i fautori dell'arcidiacono Pietro risollevarono la testa, egli con il suo vescovo dovette rifugiarsi ad Este sotto la protezione del marchese Folco. Cinque anni dopo, il suo nome compare in un atto pubblico accanto a quello dell'arcidiacono Pietro.
Evidentemente questi si era sottomesso, per merito, sembra, di Bellino, che nello stesso tempo conduceva innanzi la riforma dei canonici e affrettava la ricostruzione della cattedrale, crollata nel terremoto del 1117.
Quando nel 1120 Sinibaldo ritornò a Padova, Bellino poté influire ancor di più nell'attività pastorale di lui. Dai documenti del tempo emerge una linea uniforme di governo, la stessa che caratterizzerà l'episcopato di Bellino. Non sappiamo con precisione quando egli sia successo a Sinibaldo: un documento del 10 ottobre 1126 ce lo mostra ancora arciprete, un altro del 10 dicembre 1128 già vescovo.
Eminente per la santità della vita e l'elevatezza dell'ingegno, Bellino si dedicò totalmente all'attuazione in diocesi della riforma gregoriana. S'adoperò pertanto a recuperare i beni che chiese e monasteri avevano perduto durante la lotta tra Sacerdozio ed Impero, a confermarne
giuridicamente il possesso e, ove fosse possibile, ad aggiungerne degli altri; ben distinguendo, però, tra dipendenza feudale e dipendenza ecclesiastica, procurò che venissero in possesso diretto del vescovo le chiese cui era annessa la cura d'anime. Nella città, in rapido sviluppo, favorì l'affermarsi di quel primo stadio di organizzazione parrocchiale che furono le capellae con sacerdoti incaricati della cura d'anime d'un determinato quartiere.
Promosse la unione di questi sacerdoti nella Fratelea capellanorum. Durante il suo episcopato e grazie al suo influsso sorsero le prime scuole, si moltiplicarono le emancipazioni dei servi della gleba, non solo nei feudi vescovili ma anche in quelli dei signori, e la città si avviò alle libere forme municipali.
L'energia mostrata in difesa dei diritti della Chiesa non poté non toccare gli interessi di qualche potente. Nel 1147, probabilmente il 26 novembre, mentre era in viaggio per Roma o, come vuole il Barzon, per il monastero di Vangadizza (Badia Polesine), fu trucidato nelle boscaglie di Fratta Polesine da sicari al soldo della famiglia padovana dei Capodivacca.
Il suo corpo, deposto nella chiesetta di San Giacomo di Lugarano, quando questa, pochi anni dopo, fu travolta dall'inondazione, rimase trent'anni sotto le macerie, finché gli abitanti del capoluogo S. Martino di Variano lo estrassero per portarlo nella loro chiesa, la quale insieme con il paese stesso finì per prendere il nome del martire.
Se la sua canonizzazione da parte di Papa Eugenio III è solo una pia tradizione ed ignota è l'origine dell'uso di invocarlo contro le morsicature dei cani idrofobi, è certo che il suo culto si diffuse non solo nella diocesi di Padova, ma anche in quella di Adria, che anzi ne fece il suo patrono principale. Nel 1647 la famiglia padovana dei Guarini gli eresse una nuova splendida cappella e collocò la vecchia urna entro una di marmo rosso; nel 1774 Clemente XIII elevò a basilica la chiesa di San Bellino è festeggiato il 26 novembre, probabile giorno anniversario della sua morte.
(Autore: Ireneo Daniele)

Giaculatoria - San Bellino di Padova, pregate per noi.

*San Corrado di Costanza – Vescovo (26 novembre)
900 c. - 26 novembre 975

Nato verso il 900 dal guelfo conte Enrico di Altdorf ed entrato come «frater adscriptus» nel monastero di San Gallo, fu affidato alla scuola della cattedrale di Costanza per esservi educato allo stato clericale.
Nel 934, in presenza di sant'Ulrico, vescovo di Augusta, venne eletto vescovo di Costanza. Benché non abbia svolto un'attività politica, sembra fosse molto apprezzato da Ottone I al cui seguito probabilmente si trovò durante il viaggio a Roma per l'incoronazione imperiale (964). Secondo una notizia leggendaria sarebbe stato tre volte a Gerusalemme.
Morì il 26 novembre 975 e fu sepolto nella basilica di San Maurizio, da lui costruita. Callisto II, in una lettera del 28 marzo 1123, indirizzata al vescovo, clero e popolo di Costanza, dichiarò Corrado Santo. (Avvenire)
Etimologia: Corrado = consigliere audace, dal tedesco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: A Costanza nella Svevia in Germania, san Corrado, vescovo, che, ottimo pastore del suo gregge, con i suoi beni provvide largamente alla Chiesa e ai poveri.
Nato verso l'anno 900 dal guelfo conte Enrico di Altdorf ed entrato come frater adscriptus nel monastero di S. Gallo, fu affidato alla scuola della cattedrale di Costanza per esservi educato allo stato clericale.
Nel 934, in presenza di Sant'Ulrico, vescovo di Augusta, con cui fu in rapporti di amicizia, venne eletto vescovo di Costanza, dove si distinse costruendo e dotando chiese e ospedali. Benché non abbia svolto un'attività politica, sembra fosse molto apprezzato da Ottone I al cui seguito probabilmente si trovò durante il viaggio a Roma per l'incoronazione imperiale (964).
Secondo una notizia leggendaria sarebbe stato tre volte a Gerusalemme. Morì il 26 novembre 975 e fu sepolto nella basilica di S. Maurizio, da lui costruita.
Il vescovo Ulrico di Costanza (1111-27) pregò il papa Callisto II di voler canonizzare Corrado: il pontefice gli rispose di inviare a Roma una Vita del santo. Fu mandata quella scritta da Udalscalco, per incarico dello stesso Ulrico.
Callisto II, in una lettera del 28 marzo 1123, indirizzata al vescovo, clero e popolo di Costanza, dichiarò Corrado santo: il 26 novembre successivo ebbe luogo la solenne traslazione delle spoglie. Nell'anno 1526, al tempo della Riforma, i sacri resti vennero gettati nel lago di Costanza; si salvò soltanto la testa.
Corrado è fra i patroni di Costanza e di Friburgo in Brisgovia: il suo culto è diffuso nella Svizzera tedesca, nel monastero di San Gallo e in quello di Einsiedeln, nella Svevia e a Ottobeuren.
Nell'iconografia il Santo vescovo è spesso rappresentato con un calice in cui è caduto un ragno: il motivo trae origine dall'episodio secondo il quale Corrado avrebbe inghiottito senza esitazione e senza danno un ragno velenoso caduto nel calice durante la Messa.
(Autore: Ludwig Falkenstein)

Giaculatoria - San Corrado di Costanza, pregate per noi.

*Beata Delfina di Signe – Vedova (26 novembre)
Puimichel, Francia, c. 1285 - Apt, Francia, 1360

Martirologio Romano: Ad Apt nella Provenza in Francia, beata Delfina, che, moglie di Sant’Elze di Sabran, insieme al quale fece voto di castità, dopo la morte del marito visse in povertà e dedita alla preghiera.
Delfina è nata infatti a Puimichel, probabilmente nel 1285. Era figlia del signore del luogo. La madre era di Barras, a circa dieci chilometri da Digne. Giovanissima, Delfina perde i genitori, ha una sorellastra, dal leggiadro nome di Alayette, che entra presto in convento. Quanto a Delfina, i parenti che le restano, degli zii, la mettono nel monastero agostiniano di Santa Caterina, a Soys, dove si trova sua zia, una certa suor Cecilia, che probabilmente esercita una forte influenza sulla bambina. I suoi zii la riprendono quando ha tredici anni, poiché la vogliono maritare.
Carlo II d'Angiò, re di Sicilia, la destinava al figlio del conte di Ariano. Delfina rifiuta: dichiara alla sua famiglia che ha deciso di restare vergine e di votarsi a Dio. Furore degli zii, che insistono tanto più in quanto temono che il re fraintenda la causa del rifiuto, e vi veda una maniera mascherata di respingere la domanda. Per cercare di convincere la fanciulla, e ritenendo che un religioso la potrà influenzare meglio di loro, fanno intervenire un francescano, a cui Delfina comunica esplicitamente la sua intenzione di votarsi a Dio. Il religioso le spiega la difficile situazione in cui metterebbe la sua famiglia, e le consiglia di consentire comunque al fidanzamento, salvo poi rifiutare il matrimonio, in seguito. Delfina si lascia persuadere e scambia le promesse richieste con il giovane Elzeario (Auzias) di Sabran, probabilmente nel 1297.
Due anni dopo, il 5 febbraio 1300, il matrimonio è celebrato ad Avignone. Delfina ha quindici anni, due di più del giovane sposo.
Quando quest'ultimo le parla di rapporti sessuali, risponde invocando l'esempio di Cecilia e di Valeriano suo sposo, nell'antichità, oppure la vicenda di Alessio che abbandonò il tetto familiare la sera delle sue nozze. E lo fa con tanta gentilezza, si legge nel processo di beatificazione di Delfina, che Elzeario "si mise a piangere, per un senso fortissimo di devozione".
Tuttavia, senza scoraggiarsi, ogni tanto insiste con la giovane moglie, al punto che un giorno essa si ammala, colpita da una forte febbre, e fa sapere al suo sposo che guarirà solo se egli le prometterà di vivere accanto a lei in uno stato di astinenza perpetua.
Poco dopo Elzeario parte per assistere a una vestizione nel castello di Sault. Durante questa assenza riflette profondamente sulla richiesta di una sposa che ama, e decide di accettare la sorprendente situazione che ne deriva per entrambi.
Poiché era morto suo padre, dovette recarsi in Italia per regolare la successione; la sua assenza si sarebbe protratta per quattro anni. Quando ritorna, Delfina gli confessa di avere fatto voto di verginità nella cappella del castello di Ansouis, Lungi dall'adombrarsi, Elzeario vuole pronunciare lo stesso voto; dopodiché i due sposi ricevono insieme la comunione dalle mani del loro confessore. Entrambi trascorrono la vita compiendo opere buone, tanto quanto possono. Pur amministrando i suoi beni e possedimenti, Elzeario ha riunito a Puimichel una piccola comunità che accetta una regola di vita che potremmo dire monacale: funzioni religiose, discorsi spirituali, opere di carità. Apparentemente vive come un gran signore del suo tempo, ma ha visioni mistiche; e, sebbene Elzeario condivida il letto della sua sposa, quest'ultima dorme vestita, ed entrambi quando sono soli nella loro camera si alzano e pregano insieme.
Elzeario fu inviato alla corte di Francia per un'ambasciata: si trattava di proporre una sposa per il duca di Calabria. Durante questa assenza, mentre si trovava ad Avignone e pregava, Delfina ebbe improvvisamente la visione di tutta la famiglia del conte vestita di nero. Capì che Elzeario era morto.
E infatti qualche tempo dopo la notizia giungeva da Parigi alla Provenza. Delfina pianse a lungo quello sposo così amato, fino al giorno in cui, mentre pregava nuovamente, nella sua camera, a Cabrières, egli le apparve e disse: "II nostro vincolo si è spezzato; ne siamo liberi". Infatti entrambi erano ormai liberi da quel legame coniugale che era stato insieme la loro gioia e il loro tormento.
In seguito Delfina decise di vendere tutto quello che possedeva per darne il ricavato ai poveri, prendendo alla lettera le parole del Vangelo; prima i beni mobili, poi i castelli. Poiché la regina di Sicilia, Sancia, moglie del re Roberto, glielo chiese, si recò a Casasana in Sicilia, dove restò parecchi anni per prendersi cura della regina e farle compagnia. Lì fece voto di povertà assoluta, conforme all'iniziativa presa in Provenza. Convocò i suoi familiari, i domestici, dichiarando che tutto ciò che si trovava nella sua residenza apparteneva loro e che ne avrebbero goduto vita natural durante, con l'obbligo di donare tutto ai poveri dopo la morte; "Se, per amore di Dio, vi piacesse tenermi con voi, insieme a mia sorella monaca, e procurarci le cose necessarie alla vita come fareste con due donne povere qualsiasi, spero che Dio vi compenserà... E voglio che d'ora in poi non mi consideriate più come la vostra signora, ma solo come vostra compagna e come una semplice pellegrina che avete ospitato in nome di Cristo". Ritornata in Provenza, partecipava a tutti i lavori domestici e specialmente a quelli più semplici, come scopare o lavare i piatti. Portava solo abiti grossolani di semplice bigello, e, in testa, un velo di tela di lino.
Delfina morì trentasette anni dopo il suo sposo, nel 1360, "il giorno successivo a Santa Caterina, all'aurora". Aveva settantasei anni, ed era già malata da parecchio tempo. Elzeario era stato dichiarato santo dopo un processo avviato nel 1351. Tre anni dopo la morte di Delfina cominciava anche il suo processo di beatificazione. Le persone del suo ambiente riferirono numerosi miracoli accaduti poco dopo la sua morte. Infatti il 26 novembre 1360 il suo corpo, rivestito del saio dei frati minori, era stato trasportato nella chiesa di Santa Caterina.
La notte successiva si udì risuonare una musica armoniosa, riferiscono dei testimoni. Molti dichiarano di essere usciti per vedere donde provenissero quei canti, ma, poiché non videro nessuno, li attribuirono ai cori angelici. Un certo Stefano Martino, che non poteva camminare senza le grucce, entrò nella chiesa e ne uscì guarito, quel 26 novembre; e il giorno dopo il procuratore di Apt, Raybaud de Saint-Mitre, che aveva deciso di offrire un pasto ai poveri nella casa della contessa, fu sorpreso vedendo arrivare molte più persone di quelle previste. Egli aveva fatto cuocere solo un'émine, vale a dire circa cinque litri di piselli; ce ne sarebbe voluto il triplo, per nutrire le duecento persone circa che si presentarono; ma dopo che tutti ebbero mangiato rimase ancora una grossa marmitta piena di piselli.
Dunque i miracoli si susseguirono dopo la morte di Delfina, tanto che, nel 1363, fu intrapreso il suo processo di canonizzazione. L'arcivescovo di Aix, i vescovi di Vaison e di Sisteron furono incaricati dell'indagine, che cominciò il 14 maggio 1363 ad Apt, nella chiesa dei Cordiglieri, Una seduta solenne nella cattedrale riunì tutta la folla, che approvò il processo e dichiarò la santità della contessa d'Ariano.
Da quel momento il processo con le deposizioni dei testimoni oculari è considerato concluso. Il testo è consegnato al papa nell'ottobre successivo. Ma a questo punto i penosi eventi che affliggevano la cristianità avevano un contraccolpo. Urbano V, che allora occupava il trono pontificio di Avignone, e che era il figlioccio di Elzeario, si trovava in una posizione difficile.
Desiderava rientrare a Roma, effettuò persino un ritorno che sarebbe stato brevissimo, e preferì rinviare la canonizzazione di Delfina. Poi si succedono, ad Avignone, dal 1378, pontefici eletti in condizioni più che dubbie, e con i quali si apre il periodo chiamato del Grande Scisma. Occorre attendere il 1417 perché siano ristabilite, nella Chiesa, la pace e l'unità. Nel frattempo, nella cappella dei Cordiglieri di Apt, il corpo di Delfina era stato deposto in una cassa vicino a quella che conteneva le spoglie del suo sposo sant'Elzeario. Il tempo passava. Il processo non fu mai ripreso. Elzeario è sempre venerato come santo, mentre Delfina ha solo diritto al titolo di Beata.
Lo strano destino di questa coppia di santi assume tutto il suo rilievo solo se è collocato sullo sfondo tragico e perturbato in cui visse. Sappiamo che nel XIV secolo hanno luogo grandi catastrofi naturali; la carestia del 1315-16, la peste nera del 1348; e, oltre alle guerre franco-inglesi, la cristianità è in
uno stato di incertezza di fronte a un papato un poco indebolito, tenuto al guinzaglio dal re di Francia e dall'Università di Parigi, e residente ad Avignone dal 1309.
In quest'epoca così perturbata, la santità di questa coppia vergine e totalmente accordata con la vita del Regno di Dio e i destini escatologici dell'umanità intera assume un alto significato: "Saranno come angeli nel cielo", si legge nel Vangelo.
In maniera più concreta, Elzeario e Delfina, nella loro preoccupazione costante di approfondire la fede che li anima, sono utili più volte. Elzeario è amico di un famoso francescano, Francesco di Maironnes, del convento di Sisteron, che, recatesi a Parigi per insegnare, ha potuto assistere il conte di Ariano nel momento della sua morte. Quanto a Delfina, i testimoni del suo processo dichiarano più volte che sapeva dissuadere coloro che " avevano opinioni false, o parlavano male del Sommo Pontefice". Si doveva discutere intensamente nella regione avignonese, e non a torto, di fronte a una corte pontificia di cui il meno che si possa dire è che conduceva un'esistenza poco conforme alla povertà evangelica! Ancor più, il suo processo è l'eco delle asserzioni eretiche allora molto diffuse intorno alla Santa Trinità e al "Regno dello Spirito Santo" che annunciavano numerosi visionari, e che aveva l'effetto di introdurre nella vita divina una specie di "quaternità": conseguenza delle predicazioni profetiche di un Gioacchino da Fiore, che al suo tempo non era stato quasi ascoltato, ma di cui lontani discepoli riprendevano le accese teorie intorno a una Chiesa dello Spirito Santo che sarebbe succeduta a quella di Cristo . Sappiamo in che modo tali errori avessero trovato spesso eco nei francescani, nel ramo di quelli che erano chiamati spirituali. Un certo Durando, che depone al processo di Delfina, mostra la contessa " inorridita " dalle opinioni eretiche di un frate minore di cui non ha potuto ricordare il nome e che era venuto da Napoli per discutere con lei sulla fede nella Trinità. " Si serviva di sofismi per tentare di provare che c'era in Dio una quarta persona" dichiara. La contessa rispose ricordando l'insegnamento della Chiesa e il simbolo di Atanasio. In un'altra occasione, fu davanti al papa stesso, Clemente VI, che Delfina, chiamata a discutere con santi dottori, li sbalordì con la sua autorità; e tutti conclusero che non poteva sapere tante cose "se non per ispirazione dello Spirito Santo".
Si tratta probabilmente dello stesso Durando di cui più testimoni narrano la vita al processo di Delfina, da cui fu miracolato.
Si trattava di un guascone, Durando Arnaldo de la Roque Aynière. Lui e alcuni compagni imperversavano per la Provenza, nel 1358, quando caddero in un'imboscata preparata dalla gente di Ansouis, che, senza processo, li gettò in un pozzo " profondo circa ventidue canne", come precisa un testimone. Lo chiusero con grosse pietre, poi si allontanarono. Quando gli avevano legato le mani, Durando aveva invocato nel suo cuore la contessa Delfina, che era allora ad Apt, e di cui lo aveva profondamente colpito la fama di santità. Ora, in fondo al pozzo, dove era stato gettato il lunedì, tornò in sé il mercoledì mattina, e una voce interiore gli disse: "Alzati, esci di qui"; si accorse che i cadaveri dei suoi compagni che erano stati gettati prima di lui avevano attutito la sua caduta, e che era stato colpito solo da una grossa pietra, alla tibia. Riuscì ad alzarsi, gridò con tutte le sue forze; stupefatti, quelli che erano nel castello lo sentirono, gli portarono delle corde e lo tirarono fuori sano e salvo. In seguito Durando si recò da Delfina, ascoltò le sue esortazioni e si convertì, si confessò e per qualche tempo restò vicino ad Apt, nel romitaggio di Santa Maria di Clermont. Pare che in seguito sia diventato frate, probabilmente a Rocamadour. Nel processo di canonizzazione depone a tre riprese.
(Autore: Guido Pettinat - Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - Beata Delfina di Signe, pregate per noi.

*San Domenico Nguyen Van Xuyen - Martire Domenicano (26 novembre)

Schede dei gruppi a cui appartiene:
“Santi Andrea Dung Lac e Pietro Truong Van Thi Sacerdoti e martiri”
“Santi Martiri Vietnamiti (Andrea Dung Lac e 116 compagni)”

1786 - 1839
Studioso di lettere, fu ricevuto nell'Ordine domenicano da Sant' Ignazio Delgado e nel 1819 fu ordinato sacerdote. Fu un apostolo fervente in tutto il Vietnam fondando numerose comunità cristiane. Scoppiata la persecuzione anticristiana, il governo promise un'ingente somma a chi avesse collaborato alla cattura del sacerdote domenicano, cosicché ben presto fu tradito, arrestato e torturato. Condannato alla decapitazione per essersi rifiutato di calpestare la croce, coronò il suo apostolato il 26 novembre 1839.
Emblema: Palma
Martirologio Romano: Nella città di Nam D?nh nel Tonchino, ora Viet Nam, Santi Tommaso Ðinh Vi?t D? e Domenico Nguy?n Van (Ðoàn) Xuyên, sacerdoti dell’Ordine dei Predicatori e martiri, che furono decapitati insieme per decreto dell’imperatore Minh M?ng.
Fa parte del gruppo di 116 martiri, morti per la fede nel Tonchino (Vietnam) fra il 1745 e il 1862, a suo tempo beatificati a gruppi negli anni 1900 – 1906 – 1909 – 1951 e poi elevati agli onori degli altari come santi, tutti insieme, da papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988, commemorazione liturgica per tutti il 24 novembre.
Volendo sorvolare sull’inizio dell’evangelizzazione del Tonchino avvenuta nel 1627, bisogna dire che il cristianesimo si affermò quasi subito in quelle popolazioni, nel contempo già dal 1630 un editto del re, istigato da un bonzo, proibì al popolo la pratica della religione cristiana e già nel 1644 si ebbe il primo martire nel catechista Andrea Trung.
E così si andò avanti con i missionari indomiti che ad ondate arrivavano nel Paese e le persecuzioni provocate dal taoismo e buddismo che per almeno due secoli si sono avvicendate con schiere di martiri da parte cristiana, fino al 1862 quando il re Tu-Duc sanzionò il principio della libertà religiosa per i suoi sudditi e cessarono così le persecuzioni.
Xuyèn a cui fu dato il nome di Domenico, fu ricevuto sin dalla giovinezza nella “Casa di Dio” dal beato padre Delgado, divenne sacerdote a 33 anni nel 1819, l’anno successivo entrò nell’Ordine dei
Predicatori (Domenicani), condusse una vita operosa nell’apostolato percorrendo il vasto territorio del suo distretto, incurante dei pericoli della persecuzione di turno.
Collaboratore nella parrocchia di Pham-Phao ebbe poi l’incarico della parrocchia di Ke men, dove operò la conversione di molti tonchinesi; uguale successo ebbe quando dopo quattro anni, fu trasferito a Dong-Xuyen dove stette tredici anni.
Imperversando più forte la persecuzione di Minh Mang, cercò di operare più prudentemente perché fra i vari incarichi ricevuti vi fu anche quello di segretario del vescovo Ignazio Delgado e quindi dopo l’arresto dello stesso vescovo nel 1838, veniva ricercato quale supposto tesoriere. Su di lui fu posta una taglia e l’avidità di un pagano fece sì che fosse denunziato ai mandarini e il 18 agosto 1839, mentre era impegnato in una festa della comunità cristiana di Phu duong, venne preso e portato a Nam Dinh presso il capo della provincia.
Fu sottoposto a tormenti molto più dolorosi di altri cristiani arrestati, sia perché i mandarini esigevano la sua apostasia, ma anche per l’avidità di prendere l’oro di cui si riteneva fosse il custode. Gli venne chiesto di calpestare la Croce in modo così brutale che gli venne un tremito per tutta la persona, dopo molte sferzate perse la parola, con tenaglie fredde o roventi gli veniva strappata la carne viva, nonostante tutto questo, rispondeva al mandarino Trinh Quang Khanh: “Nella vita come nella morte mai abbandonerò la fede”.
Tanta fermezza provocò la sentenza di morte il 25 ottobre 1839; sentenza che fu confermata dalla corte a Nam Dinh e così il padre Domenico Xuyèn insieme con il Beato Tommaso Dué, che era stato condannato qualche giorno prima, il 26 novembre 1839 salirono il patibolo per essere decapitati poco dopo mezzogiorno, aveva 52 anni di età, fu sepolto sul luogo del supplizio e traslato due anni dopo nel collegio di Luc Thuy. Beatificato da Leone XIII il 27 maggio 1900.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)

Giaculatoria - San Domenico Nguyen Van Xuyen, pregate per noi.

*Beata Gaetana Sterni (26 novembre)

Cassola, Vicenza, 26 giugno 1827 - Bassano del Grappa, Vicenza, 26 novembre 1889
Martirologio Romano:
A Bassano vicino a Vicenza, beata Gaetana Sterni, religiosa, che, rimasta vedova ancora giovane, si diede interamente al servizio dei poveri e istituì la Congregazione delle Suore della Divina Volontà per l’assistenza ai poveri e ai malati.
Gaetana Sterni vive tutta la vita a Bassano del Grappa, antica e ridente città della provincia di Vicenza (Italia). Vi giunge con la famiglia, a 8 anni, dalla vicina Cassola, dove è nata il 26 giugno 1827. Il padre Giovanni Battista Sterni, amministra per conto dei Mora, nobili veneziani, la loro proprietà di campagna e nella Ca’ Mora di Cassola vive agiatamente con la moglie Giovanna Chiuppani e i loro sei figli. Nel 1835 si trasferisce con la famiglia a Bassano. In breve però una serie di vicende cambia drasticamente le condizioni della famiglia di Gaetana.
Infatti, muore a 18 anni Margherita, la sorella maggiore e, in seguito a penosissima malattia, muore anche il padre, mentre il fratello Francesco, per fare l’attore, lascia la casa e la famiglia in situazioni economiche critiche. Questi fatti segnano l’esistenza di Gaetana che cresce in fretta dovendo condividere con la madre i molti problemi della vita di ogni giorno. E’ dotata di buona intelligenza, si dimostra sensibile e matura ma anche piena di vita, "desiderosa di amare ed essere amata". La sua educazione alla fede è solida e sostenuta dalla testimonianza e dagli insegnamenti della madre, dalla preghiera, dalla frequenza ai sacramenti.
Riscuote presto nel suo ambiente stima e apprezzamento per la personalità solare, piena di buon senso e per la spiccata femminilità. "Di leggiadre sembianze e rara avvenenza" è ricca di fascino, e colpisce un giovane imprenditore, vedovo con tre figli che chiede di sposarla.
Dopo una valutazione consapevole dei suoi sentimenti e delle responsabilità che si assume, superando l’opposizione del tutore, Gaetana accetta la proposta di Liberale Conte. La giovane sposa che non ha ancora 16 anni, entra nella nuova casa e la riempie con la sua vitalità; ridà serenità e gioia al marito e ai tre bambini che la amano come madre. Quando Gaetana conosce di aspettare un figlio, la felicità della coppia è completa.
Mentre prega una premonizione sulla imminente morte del marito turba Gaetana, la quale si sente "morire dal crepacuore" all’idea di perdere colui che le è "più caro della vita", però nel suo intimo avverte come una forza che l’aiuta a non disperare e ad affidarsi a Dio con tutto il cuore. Il presentimento purtroppo si avvera e Liberale, nel pieno della giovinezza e della salute, dopo un breve malore, muore. La giovanissima sposa vive ore di terribile angoscia per la perdita del marito, che
amava più di se stessa, per il dolore dei figli un’altra volta orfani e per il suo bambino che mai conoscerà il proprio padre.
E’ sconvolta dal dolore ma quando rientra in se stessa ricorda la premonizione avuta e ciò che ha sperimentato. Si riaffida al Signore, mettendo in Lui con fiducia tutta la sua vita. In Lui trova la forza per vivere, prendersi cura dei tre piccoli e portare a termine la sua gravidanza. Però anche il bambino di Gaetana muore alcuni giorni dopo la nascita. Iniziano anni di amara vedovanza.
La famiglia del marito infatti non giustifica l’affetto che lega gli orfani a Gaetana e nascono incomprensioni, sospetti e calunnie. Viene separata dai figli e allontanata dalla sua casa.
A diciannove anni ritorna da sua madre. Nonostante questa prova, dimentica di sé, aiuta i bambini ad accettare il duro distacco. Affabile ma ferma, difende i diritti dei minori, perdona con larghezza e ottiene con la riconciliazione piena la serenità delle due famiglie.
La sofferenza non la inasprisce, la sua naturale sensibilità diviene presenza, capacità di misericordia e solidarietà.
Non ha mai pensato a farsi religiosa e guardando al suo futuro, prega affinché il Signore le faccia conoscere qual’è lo sposo che Dio le ha destinato. Ma proprio nella preghiera percepisce con chiarezza che Dio vuole essere "l’unico Sposo dell’anima sua". Gaetana ne è sconvolta. Si confronta con il suo confessore il quale le conferma che si tratta di un’autentica chiamata di Dio. Chiede quindi di entrare nel convento delle Canossiane di Bassano e viene accettata come postulante. Vive in quella comunità cinque mesi felici, ma ancora nella preghiera ha un’altra premonizione che la prepara alla morte della mamma, avvenuta poi nel giro di alcuni giorni. Deve dunque lasciare il convento e assumersi la responsabilità dei fratelli minori.
Per anni affronta difficoltà, malattie familiari, dispiaceri e ristrettezze economiche. Nonostante tutto riesce a darsi un metodo di vita che la impegna spiritualmente. Si confronta con il suo confessore e prega con assiduità per conoscere la volontà di Dio su di lei. Con umile disponibilità si fa sempre più attenta a ciò che Lui le chiede nell’intimo del cuore, ma anche attraverso gli avvenimenti e i bisogni dei poveri della sua città.
Quando era dalle Canossiane con il presentimento della morte della madre, Gaetana aveva pure intuito che Dio la preparava al Ricovero "per impiegare là tutta se stessa nel servizio dei poveri e adempiere così la sua volontà". Custodisce nel cuore questa vocazione per lungo tempo prima di trovare il coraggio di parlarne al confessore perché la cosa le pare terribile e strana.
Quando finalmente lo fa, questi sembra non dare molto peso all’idea. Gaetana però ogni volta che vede un povero "ricoverato" risente l’invito "ti voglio tra i miei poveretti", e dice "l’idea del Ricovero sempre mi perseguita". Ha 26 anni quando finalmente libera da impegni familiari può disporre di sé. Concludendo un discernimento serio e condiviso, sarà il gesuita P. Bedin a confermarla, dicendole "Sì, Gaetana, il Signore vi vuole al Ricovero". Nel 1853, "solo per fare la volontà di Dio", Gaetana entra in questo Ospizio di mendicità che accoglie in condizioni miserabili 115 ospiti "per la massima parte vittime del disordine e del vizio" per cui vi trova "disordini e abusi quasi di ogni genere".
Vi rimane per 36 anni fino alla morte e impegna in questo ministero tutta se stessa con infaticabile carità. Nelle veglie al letto di moribondi, nei servizi più umili ai malati e ai vecchi, tratta tutti con l’abnegazione, la soavità e dolcezza proprie di chi nei poveri serve il Signore. E’ animata da una grande confidenza in Dio, dal desiderio di essere Sua e di compiacerlo in tutto. A 33 anni, con il consenso del suo confessore don Simonetti fa voto di intera donazione di se stessa a Dio, "disposta ad accettare qualunque cosa il Signore possa disporre per lei".
Con illimitata fiducia si abbandona nelle mani di Dio, "debole strumento di cui Egli si serve per i suoi disegni". Attribuisce alla sola Provvidenza la nascita della congregazione che avviene nella semplicità e nel nascondimento con la professione delle prime due compagne nel 1865. Il nome "Figlie della Divina Volontà" interiormente suggerito a Gaetana, per lei e per le giovani che la seguono, indica ciò che deve caratterizzarle "uniformità in tutto alla Divina Volontà mediante un totale abbandono in Dio e un santo zelo per il bene del prossimo, disposte a tutto sacrificare pur di giovarlo".
Come lei, le prime compagne animate dal medesimo spirito si consacrano alla volontà di Dio e si dedicano a servire i poveri del Ricovero e il prossimo bisognoso, specialmente con l’assistenza degli ammalati a domicilio e con altre opere di carità secondo i bisogni particolari che insorgono. Il Vescovo di Vicenza approva le prime regole della congregazione nel 1875.
Gaetana muore il 26 novembre 1889 amorosamente assistita dalle sue figlie e venerata dai suoi concittadini. Le sue spoglie mortali sono venerate nella Casa Madre. Dall’inizio le comunità si sono moltiplicate e la congregazione è diffusa oggi in Europa, America, Africa.
La via alla santità che Gaetana ha percorso è, per la sua essenzialità, un itinerario proponibile a ogni cristiano: compiere in tutto e sempre ciò che piace al Signore, affidandosi a Lui con illimitata confidenza, per cambiare con la sola forza dell’amore il male in bene alla maniera di Gesù.
(Fonte: Santa Sede)
Giaculatoria - Beata Gaetana Sterni, pregate per noi.

*Beato Giacomo Alberione – Sacerdote (26 novembre)
San Lorenzo di Fossano, Cuneo, 4 aprile 1884 - Roma, 26 novembre 1971

Giacomo Alberione nacque il 4 aprile 1884 a San Lorenzo di Fossano (Cuneo), da una povera e laboriosa famiglia di contadini. A sette anni sentì la vocazione al sacerdozio. Entrò nel seminario di Bra, ma dopo quattro anni di permanenza una crisi gli fece lasciare il seminario. Nell’autunno del 1900 tornò a indossare l’abito del seminarista, questa volta nel collegio di Alba.
Nella notte che segnava il passaggio al nuovo secolo, durante la veglia di adorazione solenne nel Duomo, mentre era inginocchiato a pregare una particolare luce gli venne dall’Ostia, l’invito di Gesù: "Venite ad me omnes" (Mt 11, 28) lo incitò a fare qualcosa per gli uomini e le donne del nuovo secolo. Il 20 agosto 1914 diede inizio a quella che dapprima si chiamò "Scuola Tipografica Piccolo Operaio", e successivamente "Pia Società San Paolo", il primo dei dieci rami della Famiglia Paolina. La morte lo colse a Roma, all’età di 87 anni, il 26 novembre 1971. Il 26 giugno 1996 Giovanni Paolo II ne ha riconosciuto le virtù eroiche dichiarandolo Venerabile.
Martirologio Romano: A Roma, Beato Giacomo Alberione, sacerdote, che, sommamente sollecito per l’evangelizzazione, si dedicò con ogni mezzo a volgere gli strumenti della comunicazione sociale al bene della società, facendo dei sussidi per annunciare più efficacemente la verità di Cristo al mondo, e fondò per questo la Congregazione della Pia Società di San Paolo Apostolo.
Paolo VI lo ha definito «una meraviglia del nostro secolo», altri un «industriale del Vangelo». Sicuramente è stato un grande personaggio della storia sociale italiana e della storia della Chiesa.
Grazie a lui il mondo cattolico si è affacciato sul mercato dei mass media con strumenti e prodotti culturali competitivi. Don Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina, è stato un genio organizzativo nella caotica e insidiosa giungla della comunicazione sociale.
Alberione fu uomo solo, senza amici. La sua vita fu avvolta da un alone di mistero. Nessuno, credo, è mai riuscito a sollevare tutto il velo che coprì l’identità di quest’uomo, così alieno alle confessioni intime e dalle effusioni spontanee. Anche per questo egli non conobbe amici nel senso comune della parola.
Eppure fu sempre ammirato e un suo sorriso era cercato come quello della mamma, così come «le sue lavate di capo, che regalava qualche volta, assumevano il tono di un Savonarola in formato tascabile», come scrisse di lui un suo scomodo quanto appassionato figlio paolino.
Don Alberione nasce, figlio di contadini, in uno squallido stanzone di un rustico a San Lorenzo di Fossano (Cuneo). È il 4 aprile 1884. E morirà il 26 novembre 1971, in una semplice stanzetta dai gusti francescani nella Casa generalizia della Pia Società San Paolo di Roma senza aver riconosciuto il Papa. Paolo VI si era infatti recato al suo capezzale per rendere l’ultimo omaggio a chi aveva fondato, a soli 30 anni, una congregazione religiosa ed ora ne lasciava ben cinque, più quattro istituti aggregati all’Unione Cooperatori Paolini. Nessuno ha ancora lasciato, nella millenaria storia delle congregazioni e degli ordini religiosi, un così alto numero di fondazioni.
Il 26 novembre del 1904 rimane orfano di padre: lo stesso giorno in cui lui morirà. Tra padre e figlio non c’era mai stata intesa, come d’altra parte con il resto della famiglia. Sull’immaginetta stampata in occasione della sua ordinazione sacerdotale fece scrivere: «Quoniam pater meus dereliquit me... Dominus autem suscepit me» («Il padre mi ha abbandonato ma il Signore si è preso cura di me»).
Don Alberione è stato anche uno dei fondatori più longevi della storia della Chiesa. È vissuto 87 anni costantemente proteso a diffondere la Parola. Giacomo preferiva il libro al gioco, così come preferiva il libro alla zappa, con le conseguenti lamentele e i rimbrotti del padre. Leggiamo in un suo scritto di quando aveva vent’anni e già aveva inteso l’essenza della sua missione: «La vera forza reggitrice degli affetti del cuore, motrice del regno invisibile del pensiero, nell’unione intellettuale e morale, individuale e sociale, che scorre in tutti i secoli, che si dilata in tutte le nazioni è la potenza della parola. Parla l’uomo e parla Dio; quello con pochi mezzi manifesta i suoi verbi mentali, questi con mezzi infiniti, come infinito è Egli stesso.
Ei parlò stampando il suo verbo nella natura; onde l’uomo studiando la natura studia il Verbo di Dio».
La sua attività pubblicistica inizia nel 1913 con la direzione della «Gazzetta d’Alba». L’anno dopo nasce la Scuola Tipografica Piccolo Operaio, primo nucleo della futura Pia Società San Paolo. Nel 1915 don Alberione dà vita alla prima comunità femminile della Pia Società Figlie di San Paolo.
Gracile nel fisico, don Alberione aveva una volontà granitica. Si svegliava fra le 3 e le 3,15; alle 4,45 celebrava la messa. Verso le 7 raggiungeva il tavolo di lavoro, rispondendo personalmente alle molte lettere che giungevano da tutte le parti del mondo. Antesignano della comunicazione globale, veniva interrotto dalle visite, per le quali, generalmente, non era necessario fissare un appuntamento: si bussava alla sua porta e si entrava.
Lavoratore infaticabile, ma anche organizzatore perfetto e manager d’eccezione. Ha scritto «Famiglia Cristiana», sua straordinaria creatura che nacque il 25 dicembre 1931: «L’intuizione di don Alberione non sta tanto nell’aver utilizzato i mezzi più celeri ed efficaci della comunicazione sociale come strumenti di apostolato, quanto nell’aver adottato integralmente il metodo industriale, che si tira dietro, per sua natura, l’obbligo di aggiornamento continuo e la complementarità di molti settori. È l’industria al servizio della Chiesa; è la rinunzia definitiva a un certo tipo di artigianato; è soprattutto la rinunzia all’arrangiamento.
Libri, giornali, ecc., oltre che fatti a scopo di bene, devono essere fatti secondo tutte le regole». La professionalità a dispetto del pressappochismo che molta parte della cosiddetta «buona stampa» perseguiva. Ma tali risultati don Alberione li pagò a caro prezzo. Le travagliate vicende sono ampiamente registrate e documentate negli atti della causa di beatificazione che si è aperta nel 1981 e che lo ha già portato, nel 1996, al titolo di venerabile.
Nel 1931 invia i primi missionari all’estero: Brasile, Argentina, Stati Uniti, India, Cina, Giappone e Isole Filippine. Pur maneggiando molto denaro, fra pretese di creditori e saldi di debiti, don Alberione rimane ben ancorato al voto di povertà. Fra le tante definizioni che gli sono state date c’è anche quella di «manager di Dio». Questo piccolo e fragile uomo ha fondato un impero editoriale di dimensioni intercontinentali, sempre con il rosario alla mano e contro tutti. «L’unica sconfitta nella vita», lascia scritto, «è cedere alle difficoltà, anzi l’abbandono della lotta. L’uomo se muore lottando, vince, se abbandona la lotta è un vinto».
(Autore: Cristina Siccardi – Fonte: Enciclopedia dei santi)
Giacomo Alberione nasce il 4 aprile 1884 nella cascina delle "Nuove Peschiere" a San Lorenzo di Fossano (Cuneo). Presso la cappella dedicata a San Lorenzo riceve il Battesimo il giorno successivo, 5 aprile. La famiglia Alberione è guidata da papà Michele e benevolmente curata da mamma Teresa Allocco. Ci sono già i fratelli: Giovenale, Francesco, Giovanni; seguiranno la sorellina che morirà entro un anno e l'ultimo fratello Tommaso. Famiglia di poveri contadini, profondamente cristiana e laboriosa, che trasmette ai figli con la fede una forte educazione al lavoro e una fiducia incrollabile nella Provvidenza.
Il progetto di Dio su Giacomo comincia ad evidenziarsi molto presto: in prima elementare, interrogato dalla maestra Rosa Cardona su cosa farà da grande, egli risponde con chiarezza: "Mi farò prete!".
Seguono gli anni della fanciullezza orientati in questa direzione.
Nella nuova abitazione della famiglia nella regione di Cherasco, parrocchia San Martino, diocesi di Alba, il parroco don Montersino aiuta l'adolescente a prendere coscienza e a rispondere alla chiamata del Signore. A 16 anni Giacomo è accolto nel Seminario di Alba e subito si incontra con colui che gli sarà padre, guida, amico, consigliere per 46 anni: il can. Francesco Chiesa.

Fare "qualcosa" per il Signore e gli uomini del nuovo secolo
Al termine dell'Anno Santo 1900, già fortemente interpellato dall'enciclica di Papa Leone XIII "Tametsi futura", Giacomo asseconda l'invito potente della grazia divina: nella notte del 31 dicembre 1900, che divide i due secoli, sosta per quattro ore in adorazione davanti al SS. mo Sacramento solennemente esposto nella Cattedrale di Alba. Una "particolare luce", come testimonia egli stesso, gli viene dall'Ostia e da quel giorno si sente "profondamente obbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo", "obbligato a servire la Chiesa", con i mezzi nuovi offerti dall'ingegno umano.
E' in seguito a tale esperienza che don Alberione ricorda senza fine a tutti i suoi figli e figlie: "Siete nati dall'Ostia, dal Tabernacolo!".
L'itinerario del giovane Alberione prosegue molto intensamente negli anni dello studio della filosofìa e teologia. Il 29 giugno 1907 viene ordinato sacerdote. Segue una breve ma decisiva esperienza pastorale in Narzole (Cuneo), nella parrocchia di S. Bernardo, in qualità di vice parroco. Nei pochi mesi di apostolato pastorale diretto incontra il giovinetto Giuseppe Giaccardo che per lui sarà ciò che fu Timoteo per l'Apostolo Paolo. E sempre a Narzole don Alberione matura una maggior comprensione di ciò che può fare la donna coinvolta nell'apostolato.
Seguono gli anni vissuti nel Seminario ad Alba, dove svolge il compito di Padre Spirituale dei seminaristi maggiori e minori, e d'insegnante in varie materie.
Il giovanissimo sacerdote prega molto, studia, si presta per predicazione, catechesi, conferenze nelle parrocchie della diocesi. Dedica pure molto tempo allo studio, approfondendo particolarmente testi che lo illuminano e lo aggiornano sulla situazione della società civile ed ecclesiale del suo tempo e sulle necessità dell'uomo d'oggi: verso dove cammina questa umanità?
Ma il Signore lo vuole e lo guida in una missione nuova, multiforme nei mezzi e nelle strutture, per predicare il Vangelo a tutti i popoli, nello spirito dell'Apostolo San Paolo: portare gli uomini a Dio e Dio agli uomini, utilizzando i mezzi moderni di comunicazione. Testimoniano tale orientamento due libri di notevole importanza, maturati in quegli anni: "Appunti di teologia pastorale" (1912) e "La donna associata allo zelo sacerdotale" (iniziato nel 1911 e pubblicato nel 1915).
Maggior luce e maggior comprensione per un nuovo passo avviene nel 1910, quando don Alberione prende coscienza che la missione di dare Gesù Cristo al mondo deve essere assunta e realizzata da persone consacrate: "Le opere di Dio si fanno con gli uomini di Dio", amerà ripetere spesso.

La missione si concretizza: evangelizzare con i mezzi moderni
Per obbedire a Dio e alla Chiesa, il 20 agosto 1914, mentre a Roma muore il santo pontefice Pio X, ad Alba don Alberione dà inizio alla "Famiglia Paolina" con la fondazione della Pia Società San Paolo. Tutto avviene in forma semplice e dimessa: don Alberione si sente strumento di Dio, mosso dalla pedagogia divina che ama "iniziare sempre da un presepio", nel silenzio e nel nascondimento.
La famiglia umana - alla quale don Alberione si ispira - è composta di... fratelli e sorelle. Don Alberione è ben consapevole del ruolo importante che la donna, esercita nel "fare del bene" a gloria di Dio e per la salvezza dei fratelli. La prima donna che segue don Alberione è una ragazza ventenne di Castagnito (Cuneo): Teresa Merlo. Con il suo contributo, Alberione dà inizio alla congregazione delle Figlie di San Paolo (1915). Lentamente, ma decisamente, tra difficoltà di ogni genere, la "Famiglia" si sviluppa, le vocazioni maschili e femminili aumentano, l'apostolato si delinea e prende forma.
Nel 1918 (dicembre) avviene una prima partenza (quante ne seguiranno?) di "figlie" verso Susa: inizia una coraggiosa storia ricca di fede e di giovanile entusiasmo, che genera anche uno stile caratteristico, denominato "alla paolina".
È abbastanza semplice seguire la cronologia di questi anni: ma quanto cammino, quanto progresso! Dio è presente e dà segni evidenti che è Lui solo a volere la Famiglia Paolina.
Però, nel luglio 1923 una nube oscura sembra troncare sul nascere tutti i sogni. Don Alberione si ammala gravemente; e il responso dei medici non lascia speranze. Ma ecco che, contrariamente ad ogni previsione, don Alberione riprende miracolosamente il cammino: "San Paolo mi ha guarito", commenterà in seguito. Da quel periodo appare nelle cappelle Paoline la scritta che in sogno o in rivelazione il Divin Maestro rivolge al Fondatore: "Non temete - Io sono con voi - Di qui voglio illuminare - Abbiate il dolore dei peccati".
Nel 1924 prende vita la seconda congregazione femminile: le Pie Discepole del Divin Maestro, per l'apostolato eucaristico, sacerdotale, liturgico. A guidarle nella nuova vocazione don Alberione chiama la giovane Orsola Rivata.
Intanto don Alberione, sempre bruciato dallo "zelo" per le anime, va individuando le forme più rapide per raggiungere con il messaggio evangelico ogni uomo, soprattutto i lontani e le masse. Intuendo che, accanto ai libri, un mezzo molto efficace poteva risultare la pubblicazione di periodici, eccolo ...buttarsi massicciamente in questa forma di apostolato. Nel 1912 era già nata la rivista Vita Pastorale destinata ai parroci, al fine "che ogni pastore sia un Pastor Bonus, modellato sopra Gesù Cristo..."; adesso (1931) nasce Famiglia Cristiana, rivista settimanale con lo scopo di alimentare la vita cristiana delle famiglie. Seguiranno: La Madre di Dio (1933), "per svelare alle anime le bellezze e le grandezze di Maria"; Pastor bonus (1937), rivista mensile in lingua latina, nella quale si trattavano problemi di cura pastorale e venivano offerte profonde meditazioni biblico-teologiche; Via, Verità e Vita (1952), rivista mensile per la conoscenza e l'insegnamento della dottrina cristiana; La Vita in Cristo e nella Chiesa (1952), con lo scopo di far "conoscere i tesori della Liturgia, diffondere tutto quello che serve alla Liturgia, vivere la Liturgia secondo la Chiesa...". Don Alberione pensa anche ai ragazzi: per loro fa pubblicare Il Giornalino.
Si pone pure mano alla costruzione del grandioso Tempio a San Paolo, prima chiesa dedicata a una delle devozioni fondamentali della Famiglia Paolina. Seguiranno i due Templi a Gesù Maestro (Alba e Roma) e il Santuario alla Regina degli Apostoli (Roma).
Don Alberione si preoccupa di guidare, formare, orientare fratelli e sorelle precedendoli nella vita - vocazione - missione paolina.
Da Alba al mondo: come Paolo sempre in cammino
Nel 1926 si concretizza la fondazione della prima Casa "filiale" a Roma, seguita negli anni successivi da molte fondazioni in Italia e all'Estero.
Intanto cresce l'edificio spirituale: si segue con una maggiore comprensione e quindi più facilmente l'insegnamento del "Primo Maestro" sulla "devozione" fondamentale e qualificante: "Gesù Maestro e Pastore, Via e Verità e Vita", sulla devozione a Maria Madre, Maestra e Regina degli Apostoli; e sulla devozione a San Paolo, che ci specifica nella Chiesa e per cui siamo "i Paolini".
La meta che il Fondatore indica a tutti e che vuole sia assunta come il primo "impegno" è la conformazione piena a Cristo: accogliere tutto il Cristo Via e Verità e Vita in tutta la persona, mente, volontà, cuore, forze fisiche. Orientamento codificato in un volumetto composto intorno agli anni '30 e al quale dà il titolo paolino: "Donec formetur Christus in vobis".
Nell'ottobre 1938 don Alberione fonda la terza congregazione femminile: le Suore di Gesù Buon Pastore o "Pastorelle", destinate all'apostolato pastorale diretto in ausilio ai Pastori.
La seconda guerra mondiale (1940-1945) segna una battuta d'arresto; ma il Primo Maestro, forzatamente fermo a Roma, non si arresta nel suo itinerario spirituale. Mentre attende il ritorno di condizioni migliori per operare, egli va accogliendo in misura sempre più radicale la luce di Dio in un clima di adorazione e contemplazione ogni giorno crescente.
Frutto di tale attitudine adorante sono gli scritti che il Fondatore continua a regalare ai suoi figli, tutti di grande rilievo per la Famiglia Paolina. Ricordiamo solo la "Via humanitatis" (1947), altissima rilettura del cammino dell'umanità in ottica mariana ("per Mariam, in Christo et in Ecclesia"), e quello che è il suo sogno incompiuto: il Progetto di un'enciclopedia su Gesù Maestro (1959).
Per don Alberione l'attività piena riprende alla fine del 1945, con i grandi viaggi intorno al mondo, allo scopo di incontrare e confermare fratelli e sorelle. Rimane "folgorato" dall'Oriente (India, Cina, Filippine...): le moltitudini, i miliardi di persone... Ma quanti conoscono Gesù Cristo? "Mi protendo in avanti! Non pensare a quel che si è fatto, ma piuttosto a quanto rimane da fare".
Gli anni 1950-1960 sono gli anni d'oro del consolidamento della Famiglia Paolina: tutto fiorisce con vocazioni, fondazioni, edizioni, iniziative molteplici, impegno nella formazione, nello studio, nella povertà.
Nel 1954 si celebra il quarantesimo di fondazione, documentato in un volume pubblicato nella circostanza: "Mi protendo in avanti". E' esattamente in questa occasione che don Alberione riesce a vincere la sua naturale ritrosia nel parlare di se stesso e consegna ai suoi figli lo scritto che sarà pubblicato con il titolo: "Abundantes divitiae gratiae suae" e che viene considerato ora come la "storia carismatica della Famiglia Paolina".
Con la fondazione della quarta congregazione femminile: l'Istituto Regina degli Apostoli per le vocazioni (Suore Apostoline), dedite all'apostolato vocazionale (1959) e con gli Istituti aggregati: San Gabriele Arcangelo, Maria SS.ma Annunziata, Gesù Sacerdote, Santa Famiglia, si completa il grande "albero" della Famiglia Paolina, pensata e voluta da Dio.
Don Alberione è ora la guida di circa diecimila persone, inclusi pure i Cooperatori Paolini, tutte unite tra loro dallo stesso ideale di santità e di apostolato: l'avvento di Cristo, Via, Verità, Vita, nelle anime e nel mondo, mediante gli strumenti della comunicazione sociale.
Dalla Chiesa del Concilio a quella celeste
Negli anni 1962-1965 il Primo Maestro è protagonista silenzioso, ma molto attento del Concilio Vaticano II, alle cui quattro "sessioni" partecipa quotidianamente con vivo impegno. Giorno di particolare giubilo è il 4 dicembre 1963, in cui viene emanato il Decreto conciliare "Inter Mirifica" sugli strumenti della comunicazione sociale da assumersi come mezzi di evangelizzazione. Egli così commentò: "Ora non potete più avere dubbi. La Chiesa ha parlato". E ancora: "Vi ho dato il meglio. Se avessi trovato qualcos'altro di meglio, ve lo darei ora, ma non l'ho trovato".
Nel frattempo, non mancano tribolazioni e sofferenze al padre comune. Tra le più acute, la morte dei suoi primi figli e figlie. Il 24 gennaio 1948 torna al padre don Timoteo Giaccardo, che egli considera "fedelissimo tra i fedeli". Quindi, il 5 febbraio 1964, don Alberione è colpito da un nuovo, profondo dolore per la morte della Prima Maestra Teda (Teresa Merlo), la donna che non dubitò mai e vide in Lui l'Uomo trasmettitore della Volontà di Dio. In quell'occasione don Alberione non si preoccupò di nascondere le lacrime.
Ormai verso la fine del cammino terreno, si può affermare che il segreto di tanta multiforme attività fu la sua vita interiore, per la quale egli realizzò l'adesione totale alla Volontà di Dio, e compì in sé la parola dell'Apostolo San Paolo: "La mia vita è Cristo". Il Cristo Gesù, in particolare il Cristo Eucaristico, fu la grande, l'unica passione di don Alberione: "La nostra pietà è in primo luogo eucaristica. Tutto nasce, come da fonte vitale, dal Maestro Divino. Così è nata dal tabernacolo la Famiglia Paolina, così si alimenta, così vive, così opera, così si santifica. Dalla Messa, dalla Comunione, dalla Visita, tutto: santità e apostolato".
Il Venerabile don Giacomo Alberione rimase sulla terra 87 anni. Compiuta l'opera che il Padre Celeste gli aveva dato da fare, il 26 novembre 1971, lasciò la terra per prendere il suo posto nella Casa del Padre. Le ultime ore di don Alberione furono confortate dalla visita e dalla benedizione del Papa Paolo VI, che non nascose mai la sua ammirazione e venerazione per don Alberione. Ad ogni membro della Famiglia Paolina è oltremodo cara la testimonianza che volle lasciare il Papa Paolo VI, nella memorabile Udienza concessa al Primo Maestro e a una folta rappresentanza di membri della Famiglia Paolina, il 28 giugno 1969 (il Primo Maestro aveva 85 anni): "Eccolo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all'opera, sempre intento a scrutare i "segni dei tempi", cioè le più geniali forme di arrivare alle anime, il nostro Don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni. Lasci, caro Don Alberione, che il Papa goda di codesta lunga, fedele e indefessa fatica e dei frutti da essa prodotti a gloria di Dio ed a bene della Chiesa".
Il 25 giugno 1996 il Santo Padre Giovanni Paolo II firma il Decreto con il quale vengono riconosciute le virtù eroiche e il conseguente titolo di Venerabile.
E’ stato beatificato da Papa Giovanni Paolo II a Roma il 27 aprile 2003.

(Autore: Don Luigi Valtorta, ssp - Postulatore Generale – Fonte: www.alberione.org)

Giaculatoria - Beato Giacomo Alberione, pregate per noi.

*Beato Giovanni Martinez – Mercedario (26 novembre)

Commendatore del convento mercedario di San Giovanni in Fuentedena (Spagna), il Beato Giovanni Martinez, fu uomo di grandissima santità.
Con grande intelligenza e molto sapiente nelle decisioni governò lo stesso monastero fino alla morte ed ora per l'eternità esulta nella gloria del Signore.
L'Ordine lo festeggia il 26 novembre.

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Giovanni Martinez, pregate per noi.

*San Leonardo da Porto Maurizio - Sacerdote (26 novembre)

È il Santo a cui si deve il merito di aver ideato la Via Crucis. Ligure (1676-1751), era figlio di un capitano di marina. Nato a Porto Maurizio, l'odierna Imperia, compie i suoi studi a Roma presso il Collegio romano, per poi entrare nel Ritiro di san Bonaventura, sul Palatino, dove vestirà il saio francescano. Inviato dal Papa in Corsica a ristabilire la concordia tra i cittadini, riuscì ad ottenere, nonostante le gravi divisioni tra gli abitanti, un impensabile abbraccio di pace.
Il tema della Croce era al centro della sua predicazione: richiamava le folle alla penitenza e alla pietà cristiana. Alfonso Maria de' Liguori lo definì «il più grande missionario del nostro secolo». (Avvenire)
Patronato: Missioni al popolo
Etimologia: Leonardo = forte come leone, dal latino e dal tedesco
Martirologio Romano: A Roma nel convento di San Bonaventura sul Palatino, san Leonardo da Porto Maurizio, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori, che, pieno di amore per le anime, impegnò tutta la sua vita nella predicazione, nel pubblicare libri di devozione e nel far visita ad oltre trecento missioni a Roma, in Corsica e nell’Italia settentrionale.
Giovane francescano, Leonardo aveva chiesto di andare missionario in Cina. Il Cardinale Colloredo gli aveva risposto: " La tua Cina sarà l'Italia ".
E alla fine del Seicento, l'Italia aveva abbastanza miserie e sufficienti disgrazie per essere considerata terra di missione.
Leonardo era ancora studente a Roma, quando un compagno gli propose di andare a udire una predica. Fatti pochi passi, trovarono un impiccato che ciondolava dalla forca. " Ecco la predica " dissero i due giovani.
Pochi giorni dopo, il figlio del capitano marittimo di Porto Maurizio, in Liguria, seguì due figure di frati che salivano verso il convento di San Bonaventura, sul Palatino, dove vestì l'abito dei Francescani detti " della riformella ", o " scalzati ".
Datosi alla predicazione, forse ricordando quel suppliziato pendente dalla forca, fra Leonardo ebbe
sempre in mente l'altro suppliziato, pendente dalla Croce. Perciò, il suo tema preferito fu quello della Via Crucis, devozione tipicamente francescana, alla quale egli dette la più grande diffusione.
La sua predicazione aveva qualcosa di drammatico e di tragico, spesso al lume delle torce e con volontari tormenti, ai quali fra Leonardo si sottoponeva, ora ponendo la mano sulle fiaccole accese, ora flagellandosi a sangue.
Folle immense accorrevano ad ascoltarlo e rimanevano impressionate dalla sua bruciante parola, che richiamava alla penitenza e alla pietà cristiana. " E’ il più grande missionario del nostro secolo " diceva Sant'Alfonso de' Liguori. Spesso l'uditorio intero, durante le sue prediche, scoppiava in singhiozzi.
Predicò in tutta l'Italia, ma la regione più battuta fu la Toscana, a causa del freddo Giansenismo, ch'egli voleva combattere prima di tutto con l'ardore del suo cuore, poi con i suoi temi più efficaci, e cioè quello del Nome di Gesù, della Madonna e della Via Crucis.
In una sua missione in Corsica, i briganti dell'isola tormentata scaricarono in aria i loro archibugi, gridando: " Viva frate Leonardo, viva la pace! ".
Tornato in Liguria, fu messa in mare una galera, intitolata, in suo onore, San Leonardo. Ma di lui, gravemente ammalato, i marinai dicevano: " La barca fa acqua ".
Consumato dalle fatiche missionarie, venne infine richiamato a Roma, dove, con le sue appassionate prediche, alle quali assisteva anche il Papa, preparò il clima spirituale per il Giubileo del 1750. In quella occasione, piantò la Via Crucis nel Colosseo, dichiarando quel luogo sacro per i Martiri. Gli storici hanno dimostrato poi che nel Colosseo non furono mai martirizzati cristiani, ma la predicazione - in buona fede - di San Leonardo impedì l'ulteriore rovina del monumento, considerato fino allora come una cava di buona pietra.
Fu l'ultima sua fatica. Morì l'anno dopo, e a San Bonaventura al Palatino occorsero i soldati, per tenere indietro la folla che voleva vedere il Santo e portar via le sue reliquie. " Perdiamo un amico sulla terra - disse il Papa Lambertini - ma guadagniamo un protettore in Cielo ".
Fu lui a proporre la definizione del dogma mariano dell'Immacolata Concezione, mediante una consultazione epistolare con tutti i pastori della Chiesa

(Fonte: Archivio della Parrocchia - Note: Il sito dell'Associazione Compagnia di San Leonardo da Porto Maurizio: www.sanleonardoimperia.it)
Giaculatoria - San Leonardo da Porto Maurizio, pregate per noi.

*Sante Magnanzia e Massima – Vergini (26 novembre)
† Borgogna, 448 - † Auxerre, 451?

Discepole di San Germano d'Auxerre, nel 448 riportarono il suo corpo in Gallia.
Etimologia: Massima = grandissima, dal latino
Quel poco che si sa delle due vergini Magnanzia e Massima, proviene da due fonti non tanto sicure, una ‘Vita’ anonima, anteriore al XII sec. e i "Miracula sancti Germani" di Enrico d’Auxerre.
Enrico racconta che San Germano d’Auxerre, morì mentre era alla corte imperiale di Ravenna nel 448; il suo corpo fu riportato in Gallia, accompagnato dalle cure e dalle preghiere di cinque vergini, forse italiane, che erano diventate sue discepole: Magnanzia, Palladia, Camilla, Porzia e Massima.
Le prime tre morirono durante il lungo viaggio e sulle loro tombe furono costruite alcune chiese; Enrico d’Auxerre riferisce che al suo tempo (976), folle di pellegrini vi si recavano per tutto l’anno.
A conferma di ciò, esistono in Borgogna le località di Ste-Pallaye (Vermenton) e di Ste-Magnance. La "Vita" racconta che Magnanzia nacque a Civitavecchia, ma si dilunga soprattutto sul modo con cui fu
scoperto il posto della sua tomba.
La pietra che ricopriva la sepoltura, serviva abitualmente ai pastori dei dintorni per sedersi e riposare, stranamente questa pietra era calda d’inverno e fresca d’estate.
Uno dei tanti pellegrini che si recavano a Ste-Pallaye, una sera si coricò sopra e s’addormentò; in sogno vide le due vergini Magnanzia e Massima che si incontravano e poi si avvicinavano a lui per proteggerlo dagli assalti di un serpente, che effettivamente lo minacciava mentre dormiva.
Per riconoscenza il pellegrino raccontò a tutti il fatto e così fu scoperta anche la tomba. Nacque così il culto per Santa Magnanzia, alla cui diffusione contribuirono i monaci di Moutiers-Saint-Jean.
Il bel sepolcro della vergine Magnanzia, che ancora oggi si conserva, risale al XII secolo e i suoi artistici bassorilievi raffigurano le scene della leggenda; per fortuna le reliquie sfuggirono alle distruzioni dei calvinisti e a quelle della Rivoluzione Francese.
Nel 1823 e 1842, furono effettuate due ricognizioni canoniche delle reliquie; Santa Magnanzia veniva invocata particolarmente per i fanciulli moribondi, la festa nella diocesi di Sens è il 26 novembre.
Alla stessa data è ricordata la vergine Massima, che secondo la già citata ‘Vita’ proseguì il viaggio accompagnando la salma del santo vescovo Germano fino ad Auxerre, dove poi morì qualche anno dopo, in data imprecisata.
Le sue reliquie erano conservate nel monastero di Auxerre fino al 1567, quando vennero distrutte dai calvinisti. Per il percorso di vita verginale fatto insieme, per il sogno in cui comparvero entrambe a salvare il pellegrino, le Sante Magnanzia e Massima, vengono ricordate insieme in tante località francesi.
(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Sante Magnanzia e Massima, pregate per noi.

*San Nicone – Monaco (26 novembre)

Martirologio Romano: A Sparta nel Peloponneso in Grecia, San Nicone, monaco, che, dopo aver condotto in Asia vita cenobitica ed eremitica, si adoperò con zelo evangelico per riportare i costumi cristiani nell’isola di Creta liberata dal giogo dei Saraceni e percorse poi la Grecia per predicarvi la penitenza, finché morì nel monastero di Sparta da lui fondato.

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
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*Beato Ponzio di Faucigny – Abate (26 novembre)
Faucigny, Savoia, 1100 circa – Sixt, Savoia, 26 novembre 1178

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Nel monastero dei Canonici Regolari di Sixt nella Savoia, ora in Francia, beato Ponzio da Faucigny, che, un tempo abate di Abondance, lasciato l’incarico, volle morire come semplice religioso.
Ponzio nacque verso l’anno 1100 dalla nobile famiglia di Faucigny, signori dell’omonima subregione della Savoia. Entrò in giovanissima età nell’abbazia dei Canonici Regolari di Abondance, della quale rivide le Costituzioni accordandole con l’originale regola agostiniana.
Nel 1144 fu incaricato di fondare a Sixt, sempre in Savoia, una casa religiosa, poi eretta in abbazia
da Papa Adriano IV nel 1155. Ponzio ne divenne primo abate autonomo, pur restando in continuo contatto con Abondance. D’altra parte, nel 1154 aveva fatto elevare al rango di abbazia il priorato di Entremont che fino ad allora era stato dipendente da Sixt.
Nel 1172 fu chiamato a succedere a Burcardo in qualità di abate di Abondance ed ottenne l’anno seguente la dignità abbaziale per il monastero di Grandval. Desiderando però potersi preparare più efficacemente alla morte, abbandonò ogni carica per ritirarsi a Sixt quale semplice religioso.
Qui morì il 26 novembre 1178 e fu sepolto nella chiesa dell’abbazia.
Le sue spoglie mortali, qualche anno più tardi, furono oggetto di un’elevazione e da allora ricevette un culto regolare. Il 14 novembre 1620, San Francesco di Sales, grande devoto del Santo abate suo compatriota savoiardo, ne aprì la tomba per prelevare alcune sue reliquie.
Anche il successore di Francesco, Carlo Augusto di Sales, nutriva per Ponzio una grande stima.
Gli "Analecta Bollandiana" osservano come tra la morte di Ponzio e la comparsa della sua prima biografia trascorsero ben sette secoli, fattore che induce a grande cautela circa la veridicità di certi dati sul suo conto.
La causa per il riconoscimento ufficiale del culto tributatogli da tempo immemorabile fu iniziata solamente nel 1866 da parte del vescovo di Annecy, Claudio Magnin, e fu ripresa successivamente nel 1890 da Monsignor Ernesto Isoard. Papa Leone XIII confermò il culto "ab immemorabili" del Beato Ponzio di Faucigny con decreto datato 15 dicicembre 1896.
La sua festa è ancor oggi celebrata nell’anniversario della morte dai Canonici Lateranensi e dalla diocesi d’Annecy.

(Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Ponzio di Faucigny, pregate per noi.

*Beato Sancio de Sant'Arago – Mercedario (26 novembre)

Chiamato il guaritore del convento di Santa Maria d'Arguines, il mercedario Beato Sancio de Sant’ Arago, fu esempio di vita cristiana.
Famoso per la tante virtù e soprattutto per la grazia delle guarigioni, a lui accorrevano da ogni parte per guarire nel corpo e nell'anima, fino a quando dallo stesso convento migrò all'Eterno Padre.
L'Ordine lo festeggia il 26 novembre.

(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beato Sancio de Sant'Arago, pregate per noi.

*San Sebaldo di Treviri - Vescovo (26 novembre)

San Sebaldo o Sabaudo è un vescovo di Treviri.
Nella cronotassi ufficiale della diocesi è collocato al ventisettesimo posto tra Gauderico e Modoaldo, menzionato nel 627.
I pastori di quella diocesi sono stati documentati dalla prima metà del III secolo.
I primi vescovi, Sant’Eucherio e San Valerio sono attestati da un’antica iscrizione della fine del V secolo mentre i primi vescovi storicamente documentati, sono San Materno che diventerà arcivescovo di Colonia e Sant’Agrizio menzionato nel 314, che partecipò al concilio di Arles.
Di lui non sappiamo nulla.
Visse nel VII secolo, e viene menzionato nel 614 quando si ritiene fosse presente al Concilio di Parigi di quell’anno.
A Treviri era festeggiato il 26 novembre.

(Autore: Mauro Bonato – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Sebaldo di Treviri, pregate per noi.

*San Silvestro Guzzolini – Abate (26 novembre)
Osimo, 1177 - 26 novembre 1267

Nato nel 1177 da nobile famiglia di Osimo, nelle Marche, Silvestro Guzzolini divenne prete dopo aver studiato Diritto a Bologna e Teologia a Padova. Canonico della cattedrale osimana, a 50 anni si ritirò in una grotta presso Frasassi. Arrivarono parecchi compagni e adottò la regola di San Benedetto. Nacquero così i Benedettini Silvestrini. Nel 1231 Silvestro fondò il monastero di Montefano (Fabriano). Prima di morire, nel 1267, ne fondò altri 11 con 119 monaci. (Avvenire)
Etimologia: Silvestro = abitatore delle selve, uomo dei boschi, selvaggio, dal latino
Martirologio Romano: Presso Fabriano nelle Marche, San Silvestro Gozzolini, abate, che, presa coscienza della grande vanità del mondo davanti al sepolcro aperto di un amico da poco defunto, si ritirò in un eremo e, dopo aver cambiato varie sedi per meglio isolarsi dagli uomini, fondò infine in un luogo appartato presso Montefano la Congregazione dei Silvestrini sotto la regola di san Benedetto.
1177 – San Silvestro, della nobile famiglia Guzzolini, nacque ad Osimo (AN), da Gislerio, giureconsulto, e da Bianca Ghisleri di Jesi. La famiglia era di simpatie ghibelline, favorevoli all’Imperatore del Sacro Romano Impero.
1197 - A circa vent’anni parte per Bologna, inviatovi dal padre per apprendere il diritto e diventare avvocato. Studia giurisprudenza e vi riesce bene, ma dentro sente il vuoto, perché le leggi umane, dichiara il suo primo biografo, il Venerabile Andrea, non lo accendono per le cose di Dio. Passa all’Università di Padova per lo studio della teologia: non seguiva i vizi dell’età giovanile e non si lasciava andare a discorsi vani, pericolosi o disonesti.
1208 - Ritorna ad Osimo con la Laurea in Teologia piuttosto che in Diritto: il padre monta su tutte le furie e non gli perdona la scelta arbitraria; l’ira del genitore non si placa e gli rifiuta lo sguardo e la parola sperando di vederlo "rinsavire". Resiste Silvestro per diversi anni, e di questo suo stato viene informato il Vescovo di Osimo.
1217 - Viene ordinato Sacerdote dal Vescovo di Osimo e gli viene conferito il beneficio canonico della Cattedrale. Fu nei primi anni del suo sacerdozio, che forte degli studi fatti a Bologna, difese virilmente i diritti della sua Cattedrale, lesi dai signorotti locali.
1227 - A cinquant’anni, meditando sulla vanità delle ambizioni umane presso la tomba di un illustre parente, deceduto poc’anzi, già in preda alla decomposizione del sepolcro, riflette: Io sono quello che lui era: quello che lui è io lo sarò. Gli ritorna in mente il detto evangelico: Chi vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Decide così di ritirarsi dal mondo, desideroso di piacere soltanto a Dio. Il comportamento del suo Vescovo, più militaresco che pastorale, lo confermò nel suo proposito. Si rifugia in una grotta dell’appennino marchigiano, chiamata Grotta Fucile, già covo di briganti, non lontano dalle famose grotte di Frasassi nel comune di Genga.
Qui, attesta il Biografo, Silvestro: si dedicava intensamente ai digiuni e alla preghiera, progredendo ogni giorno nella virtù.
1228 - Due legati pontifici, i domenicani Fra Riccardo e Fra Bonaparte, in visita al clero delle Marche, incontrano il penitente Silvestro e, riscontrandone la forte spiritualità, lo consigliano di cercarsi un compagno per non rimanere solo nell’eremo. Glielo mandano loro stessi: è Filippo, il primo discepolo.
Opta per la Regola di S. Benedetto, come guida per il suo monachesimo e riceve l’abito dell’Abate di un monastero vicino, tal Pietro Magone. Affluiscono altri discepoli, desiderosi di mettersi alla sua scuola di perfezione cristiana. La grotta divenne troppo angusta, il luogo troppo arido per sostentare i Monaci.
1230 - Dopo estesa ricerca di un posto solitario più accogliente, Silvestro approda sul Montefano, vicino Fabriano. Qui lo raggiunge, proveniente da Paterno, località poco distante, il giovane Giovanni, anch’egli reduce dagli studi interrotti a Bologna; verrà soprannominato dal bastone per l’appoggio da
lui usato a sostegno della zoppia contratta in quella città. Fu il ritratto della santità del Padre Silvestro. Il suo corpo riposa nella chiesa di San Benedetto in Fabriano, meta di pellegrinaggi.
1231 - Fonda il Monastero di Montefano conglobante Fonte Vebrici che sorgeva in un avvallamento del monte (m.850).
Nel corso di questa costruzione avvennero i miracoli della trave allungata e del masso inamovibile reso leggero e trasportabile. Silvestro era chiamato spessissimo dai canonici di San Venanzo (Fabriano) a proporre al popolo la Parola di Dio. Era egregio predicatore e dottore.
1231-1248 - Cominciò a costruire monasteri, caratterizzati tutti da povertà, solitudine, lectio divina e predicazione al popolo.
27 giugno 1248 - E’ la data del Privilegio di Conferma ottenuto da Papa Innocenzo IV, in risposta a critici malevoli che l’avevano accusato di aver istituito un nuovo ordine ed abito contravvenendo a quanto disposto dal Concilio Lateranense IV (1215). La Bolla Pontificia menziona 4 monasteri: Montefano, Grotta Fucile, S. Marco di Ripalta e S. Bonfilio di Cingoli dove scrisse la vita del santo omonimo, monaco e Vescovo di Foligno, vissuto tra l’XI e il XII secolo: ivi sono contenuti gli ideali monastici del nostro Santo.
1248-1267 - Sono anni si espansione e di fioritura di santità: S. Silvestro fonda 12 monasteri con 119 monaci che egli radunò per il Servizio Divino, non desiderando le relazioni con i secolari, ma scegliendo piuttosto luoghi solitari e disabitati….
Il Santo Uomo – riferisce il biografo – aveva disposto il monastero come un giardino in una terra solitaria ed inaccessibile. Vedendovi riprodotti i fiori dei novizi, piantati gli alberi dei proficienti e ben fondate le piantagioni dei perfetti, godeva dell’abbondanza dei frutti delle virtù e s’immergeva nella contemplazione della divinità… i vecchi dimenticando l’età, partecipavano agli uffici notturni con giovanile prontezza. I giovani, tenendo a freno l’esuberanza giovanile, prendevano parte al culto divino con senile serietà.
A ben 12 discepoli viene riconosciuto il titolo di Beato. Primeggiano, tra questi, il Beato Giovanni dal Bastone e il Beato Ugo degli Atti, di Serra S. Quirico (AN).
26 Novembre 1267 - Si chiude l’operosa esistenza di San Silvestro, dotato di spirito profetico ed operatore di prodigi, pronto ormai per la Patria Beata. Si contano ben 17 miracoli operati durante la sua vita e 10 dopo la sua morte.
Fu adorno di singolarissimo privilegio, unico nell’agiografia cristiana: la Comunione ricevuta per le mani Venerande della Vergine Santissima: O figlio Silvestro, vuoi ricevere il Corpo di mio Figlio, il Signore Gesù Cristo, che vergine ho concepito, vergine ho dato alla luce e sempre vergine rimasi anche dopo il mirabile parto?
Biografia
Giovane nobile
Nel 1200 aveva 23 anni circa (San Francesco ne aveva solo 13). Egli è nato ad Osimo, una cittadina sulle colline marchigiane, non lontano dal mare Adriatico. Era un giovane elegante, nobile di casato e di sentimenti. Ghislerio, suo padre, era un perito in diritto civile, e sognava un avvenire di gloria umana per suo figlio. Per questo, terminati gli studi ad Osimo, lo mandò a studiare a Bologna e poi a Padova. Solo i figli di papà potevano permettersi tanto, a quei tempi.
Il giovane Silvestro obbedì, ma in seguito, avendo sete dell'acqua della Sapienza di Dio, volle frequentare i corsi di teologia per lo studio della Sacra Scrittura. E nel colloquio intimo con il suo Signore Egli maturò, sempre più, la vocazione allo stato religioso.
Terminati gli studi, tornò a casa e confidò ai suoi il desiderio di consacrarsi a Dio. Ma trovò l'ostacolo insormontabile di suo padre, che, per lunghi 10 anni segregò suo figlio e non gli rivolse più la parola.
Nella Comunità dei Canonici
Alla fine Silvestro, forse appoggiato anche dalla sua mamma, Bianca, la spuntò ed entrò nella Comunità religiosa dei Canonici nella Chiesa di Osimo. Ebbe anche un beneficio dal Vescovo per poter vivere, dato che suo padre lo aveva diseredato. Il giovane canonico ardeva di zelo per il Signore. Egli trovava la sua forza nella preghiera, fatta col cuore, e nella meditazione della Parola di Dio. Predicava con fede ed era radicale nell'osservanza del Santo Vangelo. Per questo era amabile e caro a Dio e al popolo.
Un giorno dovette riprendere il suo Vescovo, che non conduceva una vita proprio esemplare. Il Vescovo non digerì bene la cosa, e Silvestro si ritrovò solo, come quando si trovò prigioniero nella sua casa natale. Ma non si scoraggiò. S'infiammò ancora di più nell'amore di Gesù Cristo. E fu allora che gli nacque in petto il desiderio di lasciare proprio tutto e starsene solo con Dio.
Durante il funerale …
La spinta a fare questo passo ardito l'ebbe un giorno quando, durante un funerale di un nobile, volle guardare dentro la fossa comune. Là dentro vide in faccia lo sfacelo della morte… Silvestro inorridì e poi rifletté: «Quello che lui era io sono, e quello che egli è io sarò». Nel cuore gli risuonavano anche le parole di Gesù: «Chi vuol venire dietro a Me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua (Mt 16, 24)».
In una grotta, solo con Dio
Silvestro decise di abbandonare tutto e di ritirarsi in solitudine. Si confidò con Andrea, suo amico, che con il suo cavallo lo accompagnò verso i monti. Poi Silvestro proseguì da solo e fece esperienza eremitica in diverse grotte. Ma, più volte, in visione, Egli vide il luogo, che Dio stesso gli indicava. Allora s'inoltrò fino alla Gola della Rossa, e arrivò a ad una grotta, detta di «Grottafucile». E disse: «Qui sarà il mio riposo, qui abiterò (Sal 131, 14)». Là l'Uomo di Dio iniziò una vita eremitica di stretta osservanza: preghiera, digiuno e penitenza. A volte si cibava di sole erbe crude. Lo Spirito del Signore gli infiammava sempre più il cuore di divino Amore e lo ricolmava anche dei suoi doni carismatici.
Silvestro ormai non viveva più secondo la carne e il mondo. Egli era come rinato, era diventato una 'creatura nuova'. E viveva finalmente appagato dentro l'anima e felice nel compiere la Santa Volontà di Dio. Per tre anni si fermò, solo con il suo Dio, in questo luogo santo. Là «Egli aspirava quotidianamente, con tutto il pensiero e il desiderio, alla dolcezza delle cose del cielo». Venne come trasformato, e non solo dentro l'anima. Egli ormai sembrava un Mosè redivivo sul monte santo di Dio. La bellezza della sua anima rifulgeva anche sul suo volto angelico.
Monaco Benedettino
Un giorno l'Uomo di Dio venne scoperto da alcuni uomini del signore di Castelletta. Da allora la gente, incominciò ad andare a lui per chiedere preghiera e consiglio spirituale. Egli tutti ascoltava e incoraggiava nella via di Dio, come è scritto: «Contemplata, aliis tradere». E cioè: quello che il monaco ottiene dalla Sapienza nella contemplazione delle cose di Dio lo annuncia, per edificazione, ai fratelli.
E c'era anche chi chiedeva, con insistenza, di rimanere in quel luogo di pace per condividere quella magnifica esperienza di vita spirituale. Frate Silvestro dovette ormai decidersi e organizzare una Comunità religiosa. Ma con quale regola, e con quale abito? Pregò molto per questo e, mentre pregava, vennero a lui alcuni Santi dal cielo. Uno dopo l'altro, gentilmente lo invitavano ad accettare la loro Regola e il loro abito. Ma Egli chinava il capo e rimaneva in silenzio.
Allora gli si presentò un venerando Vecchio, attorniato da alcuni monaci, che lo esortò, con insistenza, ad accettare la sua Regola e il suo abito. Era San Benedetto. Silvestro esultò nel suo spirito, e pieno di gioia, rispose: «Ti ringrazio, reverendo Padre, io indegno tuo servo, perché sei venuto a visitarmi proprio quando avevo il cuore in ansia. Farò come Tu mi suggerisci». Poi il Santo Eremita andò da un monaco della zona, di nome Pietro e a da lui fu rivestito dell'abito monastico. Infine, avendo acquistato un libro della Regola monastica, Egli fondò il primo piccolo Eremo, con vita cenobitica, in quel luogo santificato dalla sua presenza, e lo dedicò alla Beata Vergine Maria, che Lui amava chiamare «Regina di Misericordia».
Il Venerabile Andrea, suo biografo, ci ha voluto tramandare anche i lineamenti caratteristici del nostro Santo: «Era di aspetto gradevole, casto di corpo, affabile nel colloquio, conosciuto per la prudenza e la temperanza, ardente di amore, sollecito nella pazienza, saldo nell' umiltà e nella stabilità. In breve, fioriva davanti al Signore con ogni genere di virtù».
Sul Monte Fano
A Grottafucile si stava bene insieme, nell'amore fraterno, nelle veglie di preghiera, nei digiuni e penitenze. Ma San Silvestro risentiva dentro la nostalgia per la vita eremitica, e perciò, salutati i fratelli, s'incamminò solo, tra i monti, e si diresse verso Fabriano. Salì fin sul monte Fano e si fermò su un piccolo ripiano, vicino al una sorgente. É la fonte Vembrici. Il posto era incantevole. Là il Santo volle costruirsi una capanna, addossata al monte. Ed era felice con Dio. Tutto immerso nella natura lussureggiante e nella preghiera, fatta col cuore, passava il tempo nella pace della pura contemplazione delle cose di Dio.
Ma ecco che alcune persone, un giorno, Lo scoprirono mentre, seduto accanto alla sorgente, si stava sfamando con un pane d'orzo. Gli faceva compagnia un lupo. Il Santo spiegò loro il fatto, anche perché si erano impauriti: «Da quando mi trovo in questo posto solitario il lupo sorveglia la mia celletta, come custode fedelissimo. In ogni momento mi obbedisce: evita ciò che gli viene proibito e fa puntualmente quanto gli viene comandato». E, all'ordine del Santo, il lupo si allontanò subito docilmente.
«Infatti, prosegue il suo biografo, dal momento che la sua anima era perfettamente soggetta al Creatore, non trascurando nessun comandamento divino, sembrava che avesse ottenuto l'antico dominio, concesso al primo uomo, sopra tutte le creature irragionevoli». Questo è, indubbiamente, un chiaro segno che l'Uomo di Dio aveva raggiunto la grazia dell'innocenza originale.
L'Eremo di san Silvestro
Il Santo Uomo» spandeva profumo di umiltà e mansuetudine (Ef 4,2)» e la fama di Lui si era ormai divulgata in tutta la valle dell'Esino ed oltre. Alcuni cittadini di Fabriano, dopo aver toccato con mano il fascino delle sue virtù, decisero di donargli il ripiano intorno alla sorgente di fonte Vembrici, dove lui dimorava nella pace.
E la gente accorreva, sempre più numerosa, da frate Silvestro per chiedere preghiere, benedizione e consigli spirituali. Incominciarono anche a fiorire le vocazioni alla vita monastica e allora Egli decise di costruire anche là un Eremo, dopo quello di Santa Maria in Grotta «Fucile». L'Oratorio lo volle dedicare a San Benedetto.
E l'acqua della sorgente che, da oltre sette secoli, continua a scorrere ancora oggi dall' Oratorio, è un vero segno profetico, secondo come è scritto: «Sgorgheranno da Lui fiumi d'acqua viva (Gv 7,38 )».
Il Venerabile biografo, quasi con stupore, ci tiene a ricalcare ancora, e per noi del terzo millennio, i lineamenti del nostro Santo per tramandarceli intatti: «Egli era di aspetto angelico, pieno di fede, risplendente di sapienza, benevolo nell'ospitalità, generoso nell'aiuto materiale, attento alla predicazione, sollecito nel guardare i fratelli, assiduo nella santa meditazione, pietoso visitatore degli infermi, consolatore degli afflitti». E più avanti: «Egli non accarezzava i vizi dei sudditi…, era paziente con i persecutori, misericordioso con i poveri e i deboli. Nel suo atteggiamento non avresti potuto trovare traccia di arroganza, di superbia o di vanagloria». Certo ormai, assieme a San Paolo Egli poteva, in tutta verità, ripetere:» Non sono più io che vivo, ma è Cristo, che vive in me (Gal 2,20)». E non c'è male anche per chi vuole seguire sul serio le sue orme. Sono le stesse orme di Gesù Cristo e di San Benedetto.
L'Eremo era piccolo, povero, disadorno e lontano dall'abitato. Era proprio come lo voleva il Santo Abate. Era un chiaro ritorno alla vita monastica originale, come ai tempi di San Benedetto. Era una riforma alla vita benedettina. Frate Silvestro non amava le grandi costruzioni, ma voleva l'essenziale per i suoi monaci in uno spirito di povertà e semplicità evangelica, che è caratteristica propria dei silvestrini, fin dal loro nascere.
La giornata del Monaco
I monaci, poveri e gioiosi, indossavano una veste ruvida e non conoscevano la varietà di cibo. Si alzavano anche di notte per lodare e benedire il Signore. Più volte al giorno si ritrovavano nel piccolo Oratorio per cantare Salmi e Cantici al Signore e per ascoltare e meditare le divine letture.
«Durante il giorno c'era chi si occupava delle sacre letture, chi era immerso nelle preghiera, c'era chi piangeva i propri peccati e chi gioiva nelle lodi di Dio. Questo vegliava, quello digiunava e quasi ci si contendeva l'un l'altro gli impegni di pietà. Di notte si alzavano per lodare il Creatore. Di sera, al mattino e a mezzogiorno narravano e annunziavano la sua lode e mettevano la massima cura nel culto divino». San Silvestro seguiva con amore i suoi figli spirituali, dando loro testimonianza, nella crescita armoniosa della perfezione cristiana.
I suoi primi discepoli
«Un figlio saggio è gloria del padre (Pro 10,1; 15,20)», perciò San Silvestro si compiaceva dei suoi figli spirituali, che vivevano nella stretta osservanza benedettina nei dodici Eremi, che egli volle costruire per loro. Il suo primo discepolo è il Beato Filippo da Recanati e, dopo di lui, vennero altri, prima nel piccolo Eremo di Santa Maria a Grottafucile, poi nell'Eremo sul Monte Fano, e infine, negli altri Eremi.
Tra i suoi discepoli due spiccheranno per fama di santità e prodigi: Il Beato Giovanni dal Bastone, che sarà poi il Padre Confessore della Comunità. La sua tomba è a Fabriano nella Chiesa di san Benedetto e viene festeggiato il 24 marzo. E poi il Beato Ugo Degli Atti, che veniva da Serra San Quirico. Egli era giovane e ardeva di amore e di zelo per il Signore. Anche la sua predicazione era avvalorata da prodigi e, un giorno, fece sorgere, all'istante, acqua fresca per alcuni operai assetati. Da quella sorgente scorre ancora acqua a Sassoferrato dove riposa il suo corpo. Viene festeggiato con grande solennità il 26 luglio.
Un altro monaco, che spiccava in santità e prodigi è il Beato Simone, frate analfabeta, cieco ad un occhio e questuante. L'agiografo racconta che, una volta, San Silvestro, leggendo la Bibbia, s'imbatté in un passo difficile del profeta Geremia. E, non riuscendo a capirlo come desiderava, nella sua umiltà, decise di ricorrere proprio a fra Simone, che stava nel monastero di Ripalta. A fra Simone sembrò quasi che il Santo Fondatore si prendesse gioco di lui e gli disse: «Ma siete voi sacerdoti che dovete insegnare le cose sante e istruire gli altri, non io, che sono mezzo cieco e illetterato!». Il santo gli rispose: «Fra Simone, figlio mio, ti ho chiesto questo non per prendermi gioco di te, ma perché illumini il mio intelletto circa il detto passo della Scrittura». Allora, ammirando la grande umiltà del suo Abate, fra Simone nascose il volto tra le mani, pregò e poi dette la risposta di sapienza nello Spirito Santo.
Un giorno fra Simone, che andava di paese in paese per la questua, lodava e benediceva il Signore, tutto spensierato e felice di contemplare la creazione ed ammirarne l'armonia. Si era a primavera e, passando egli per un viottolo di campagna, scorse un ciliegio in fiore… A tale spettacolo si mise in ginocchio, e con gli occhi rivolti al cielo, pregò con ardore il Signore. Poi, mentre si alzava in piedi, per riprendere il cammino, il ciliegio, tutto carico dei suoi fiori bianchi, abbassò fino a terra, per riverenza, i rami fioriti, fino a toccare i piedi del santo monaco. Egli arrossì, nella sua umiltà, … e sperava proprio di essere solo, invece erano molti quelli che ammirarono un tale fatto straordinario, senza che lui se ne accorgesse, e ne parlarono a tutti. E' proprio vero che quando l'uomo è in armonia con Dio, la natura si rasserena e gioisce perché egli è stato eletto dal Creatore per "soggiogare e dominare" la terra (Gen 1,28).
Il brutto guastafeste
Il demonio era furibondo! E tentava senza pietà l'uno o l'altro dei poveri monaci nelle distrazioni durante la preghiera, nella gola a refettorio, nella castità nel letto, nell'ozio. Ma ne riusciva sempre scornato. E, una notte, arrabbiato com'era, incominciò a dar colpi alla porta dell'Eremo, svegliando tutti. Smise solo quando arrivò il Santo, che lo rimproverò aspramente: «Vergognati, perverso spirito, tu che ti innalzavi fino alle stelle (Is 14,13)! Stanco dell'impeto dei tuoi assalti, capisci una buona volta che nell'ultimo giorno rimarrai pienamente sconfitto e privato del Sommo Bene. Ti inganni molto e ti illudi, giacché il genere di armi di cui ti riprometti vittoria, contribuisce alla nostra corona. Ritirati subito, impudente, e affrettati a recarti nel luogo dei tuoi tormenti».
Il maligno si allontanò, facendo un fracasso indiavolato giù per i dirupi del monte, che sembrò scuotersi dalle fondamenta e andare in rovina e distruzione. Un altro giorno i fratelli volevano portare all'interno dell'Oratorio un masso che servisse da pietra dell'Altare. Accorsero tutti per smuoverlo e vennero anche degli operai per aiutare, ma tutto fu vano perché il diavolo vi si era seduto sopra. Intervenne il Santo e appena tracciò un segno di croce, il sasso divenne leggero.
La Regina della Misericordia
Il demonio volle riaffacciarsi per fargliela pagare a quel sant'uomo. E una notte, verso le ore 2,00, mentre il Santo, come sempre, scendeva verso l'Oratorio per la preghiera notturna, il maligno lo fece inciampare ed Egli precipitò con il capo all'ingiù. Era proprio mal ridotto, perdeva sangue e si sentiva morire. Chiamò aiuto, ma nessuno Lo sentì per la violenza del vento e per la pioggia a dirotto. Allora San Silvestro, 'rivolgendosi alla Regina della Misericordia, la Beata Vergine Maria, a cui si era completamente affidato, con insistenti grida interiori, La pregava di non permettere che fosse privato così all'improvviso della vita corporale''. All'improvviso Ella gli si presentò e gli praticò delle salutari unzioni, e le ferite si rimarginarono all'istante. Poi prese il suo corpicino tra le sue braccia materne e in un attimo lo trasportò nella sua cella, guarito.
Un privilegio tutto speciale
Silvestro, crescendo sempre più nella devozione alla Vergine Santissima, si accendeva sempre più intensamente nell'amore vero di Lei. Ed Ella, tutta Misericordiosa, lo volle arricchire di un dono tutto speciale. Una notte, mentre Egli si trovava solo a pregare, in un'estasi improvvisa, si trovò spiritualmente dentro la grotta di Betlemme dove la gloriosa Vergine diede alla luce il Salvatore del mondo. Subito dopo si trovò in una chiesa, davanti all'altare. E mentre là pregava con il cuore, alla destra dell'altare apparve la Regina della Misericordia, il cui splendore superava quello del sole. Ella, con volto lieto e con parole suadenti, gli disse: «O figlio Silvestro, vuoi ricevere il Corpo del mio Figlio, il Signore Gesù Cristo, che Io Vergine concepii, Vergine diedi alla luce, rimanendo sempre Vergine dopo il mirabile parto?». Il Santo fu colto da immenso stupore e, con grande trepidazione, rispose: «Il mio cuore è pronto, o Signora, il mio cuore è pronto. Si compia la tua volontà in me, benché indegno». Allora Ella, con le verginali sue mani, gli diede la santissima Comunione. In forza di Essa, la sua intelligenza fu illuminata da tanta luce che da allora in poi non incontrò più nulla di difficile o di oscuro nelle divine Scritture.
«O uomo felice al quale è sollecita ad andare incontro la Madre del Salvatore! Ella, che altra volta, lo aveva soccorso, ferito nel corpo, ora lo arricchisce di doni abbondanti». E Silvestro, pieno dello Spirito di Dio, cominciò a predire il futuro e a rifulgere, ancor più, di strepitosi miracoli.
Operatore di Miracoli
Il Santo Uomo, ormai ripieno della sapienza di Dio, veniva chiamato spessissimo nella chiesa del Beato Venanzio martire, a Fabriano, a esporre al popolo la Parola di Dio. E, un giorno, passando vicino al cimitero, notò che un tale stava scavando la fossa per un certo Diotisalvi, ammalato molto gravemente e, secondo il giudizio dei medici, senza più alcuna speranza di guarigione. Il Santo disse a quelli che erano con lui: «Ecco in verità un morto che prepara la tomba ad un vivo!». Il malato guarì e l'altro morì e venne sepolto nella tomba che si era scavato.
Un altro giorno gli portarono all'Eremo un cieco nato ed Egli, implorata la divina clemenza, fece un segno di croce verso la sua faccia. La divina Misericordia fece al cieco il dono di una vista chiara, e guari all'istante. E la stessa cosa avvenne anche ad una donna di Fabriano. Nella città di Cagli liberò una donna posseduta dal demonio. Un'altra volta, mentre si era a mensa, fece, come sempre, il segno della croce sul recipiente d'acqua, che divenne ottimo vino. Lo stesso cosa fece anche per gli operai che stavano scavando una cisterna nell'Eremo di Santa Maria di «Grottafucile». Ad Osimo guarì, con un segno di croce, un fratello di nome Filippo da Varano. Egli era così mal ridotto da acerbi dolori che aveva le ginocchia tutte rattrappite. Guarì anche il figlio di una donna di Gualdo, che aveva alla faccia una malattia incurabile. A Fabriano domò un brutto incendio. Lo stesso fece a Serra San Quirico con un semplice segno di croce. E nella stessa città, mentre stava predicando la Parola di Dio, uno zoppo dalla nascita, trascinandosi per terra con le ginocchia e con le mani, arrivò fino alla presenza del Santo. Egli chinò lo sguardo sullo zoppo, e subito il suo cuore fu pervaso da un senso di viva pietà. Si volse tutto alla preghiera dinanzi al Volto della gloria e al cospetto del Signore della maestà. Poi, udito da tutti, disse allo zoppo: «Alzati, figlio; alzati, figlio!». E lo zoppo si alzò in piedi a lode e gloria del Creatore e, tutto contento, se ne tornò a casa sua.
San Silvestro operò innumerevoli guarigioni in vita e anche dopo la sua morte gloriosa.
Gli Angeli lo portano in cielo
Intorno ai novant'anni San Silvestro si mise a letto con febbre ardente. Esortò i suoi discepoli a perseverare nella vita santa e nelle osservanze monastiche. Ricevuti gli ultimi sacramenti, raccomandò il suo spirito al Signore, e concluse in pace la sua vita, piena di giorni e di opere sante. Era il 26 novembre del 1267.
Fra Giovanni, che viveva nella solitudine sul monte, vide la sua anima bella mentre veniva trasportata festosamente in cielo dagli Angeli, in mezzo ad un meraviglioso chiarore. E fra Giacomo, mentre andava a riposare, dopo una giornata di fatica in un possedimento proprio di fronte al Monastero, sentì chiamarsi per tre volte per nome. Uscì, era ormai notte: vide tutto il sacro Eremo e il monte risplendenti di luci, come di fiaccole accese. In fretta salì verso di esso e trovò che il Santo era volato nella Gloria dei cieli.
Fra Bonaparte, che si trovava nel monastero di Iesi, alla stessa ora, nel sonno, vide una scala, che da Monte Fano arrivava fino a toccare il cielo: su di essa c'erano schiere di angeli che portavano l'anima di San Silvestro in Paradiso.
Venne il chirurgo, maestro Andrea, e aprì il suo corpo per prelevarne le viscere, per il fatto dell'imbalsamazione. La casa si riempì di tanto intenso profumo. Sulla sacra tomba poi avvennero ancora guarigioni e liberazioni straordinarie per intercessione del grande Santo Anacoreta.
Oggi le sacre sue ossa sono custodite in un'urna preziosa nella chiesa a Lui dedicata nel Monastero sul Monte Fano, e c'è chi, ancora oggi, pregando il Santo con fede sincera, beneficia ancora del salutare profumo della sua grande santità.
E noi, suoi monaci, ogni giorno, Lo preghiamo con un'antica melodia in canto gregoriano:
«O Amatissimo Padre, Silvestro Anacoreta,
vieni in soccorso dei tuoi figli, moltiplica il loro numero,
difendili dai nemici infernali, e fa che il loro grido, per i tuoi santi meriti, venga ascoltato dall'Altissimo». Questo canto antico risuona nelle chiese monastiche silvestrine qui a Roma, a Fabriano, a Bassano Romano, a Giulianova, a Matelica, e poi nello Sri Lanka, in India, negli Stati Uniti d'America, in Australia e ultimamente anche nelle Filippine dove si sta costruendo un nuovo Monastero Silvestrino. Don Armando M. Loffredi o.s.b. silv.

(Autore: Monaci Benedettini Silvestrini – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - San Silvestro Guzzolini, pregate per noi.

*San Siricio – Papa (26 novembre)
Sec. IV

(Papa dal 12/384 al 26/11/399)
Romano, è considerato il primo Papa ad affermare il primato e l'autorità Papa su tutta la Chiesa. Promosse la ricostruzione della basilica di San Paolo.
Martirologio Romano: A Roma nel cimitero di Priscilla sulla via Salaria nuova, San Siricio, Papa, che Sant’Ambrogio loda come vero maestro, in quanto, portando il fardello di tutti coloro che sono gravati della responsabilità episcopale, li istruì negli insegnamenti dei Padri, che confermò anche con la sua autorità apostolica.La figura di San Siricio Papa, venne a lungo offuscata dal giudizio negativo che, sul suo conto, emergedalle opere del grande San Girolamo, cioè di un personaggio per molti versi eccezionale soprattutto per la sua prodigiosa cultura ma facile ai giudizi avventati, ispirati a personale simpatia o antipatia, come ben sa chi ne abbia letto le vivacissime Lettere.
Si può dire che la scarsa simpatia del grande studioso sul conto del Papa Siricio abbia pesato su questo personaggio per quasi quattordici secoli, perché soltanto nel 1748 San Siricio fu accolto nel
Martirologio Romano dal Papa Benedetto XIV. Questi era abbastanza ferrato, come storico e come canonista, da poter dissentire dalle secolari prevenzioni di San Girolamo!
Siricio fu successore di San Damaso, e resse il pontificato dal 383 al 399. Damaso era stato il grande protettore di San Girolamo, ma Siricio ebbe anch'egli un fortissimo campione al quale appoggiarsi, e la sua scelta fu quanto mai saggia, perché cadde su Sant'Ambrogio, Vescovo di Milano.
Milano era ormai la capitale dell'Impero di Occidente, e il Vescovo Ambrogio vi aveva raggiunto un'autorità senza precedenti.
Un Papa più meschinamente geloso avrebbe esitato a rafforzare il prestigio di quel personaggio dinanzi al quale il Vescovo di Roma rischiava di passare in seconda linea.
Invece, il romano Siricio, desideroso soprattutto del bene della Chiesa, affidò ad Ambrogio buona parte della direzione degli affari ecclesiastici, facendone quasi un socio nel governo della Chiesa.
Da parte sua, Ambrogio non approfittò di tale posizione e restò sempre in deferente atteggiamento nei confronti del Vescovo di Roma.
San Siricio, da parte sua, fu il Pontefice della moderazione e dell'equilibrio. Si sentiva veramente padre - o meglio servo - di tutti i fedeli, e rifuggiva dai particolarismi che spesso dividevano le varie Chiese. "Noi - diceva con bellissima espressione - portiamo il fardello di tutti coloro che sono gravati; o piuttosto è il beato Apostolo Pietro che lo porta in noi ".
Il focoso San Girolamo, che si lanciava come una catapulta contro gli avversari veri o supposti, non poteva andar d'accordo con quel Papa nemico degli estremismi e dell'intemperanze.
Si allontanò infatti da Roma per ritirarsi, asceta macerato e studioso insonne, in una grotta presso Betlemme, dove a buon conto ebbe per compagno, simbolico animale!, un ringhioso leone.
Eppure anche Girolamo, nel suo giostrare di infaticabile polemista, si trovava al fianco, di quando in quando, proprio il Papa Siricio, moderato e moderatore, ma non per questo tardo a difendere la verità e la giustizia.
Questo Papa non ambizioso né invidioso che sentiva veramente, sulle sue vecchie spalle, il fardello della universale comunità dei credenti, l'eredità gravosa di Pietro, di colui cioè che scioglie, ma è legato; che apre, ma è prigioniero.
(Fonte: Archivio Parrocchia)

Giaculatoria - San Siricio, pregate per noi.

*Santi Tommaso Dinh Viet Du e Domenico Nguyen Van Xuyen – Sacerdoti Domenicani, Martiri (26 novembre)

Scheda del Gruppo cui appartiene:
Santi Martiri Vietnamiti (Andrea Dung Lac e 116 compagni) - 24 novembre

† 26 novembre 1839

Domenico Nguyen Van Xuyen, studioso di lettere, fu ricevuto nell'Ordine domenicano da Sant’Ignazio Delgado e nel 1819 fu ordinato sacerdote. Fu un apostolo fervente in tutto il Vietnam fondando numerose comunità cristiane.
Scoppiata la persecuzione anticristiana, il governo promise un'ingente somma a chi avesse collaborato alla cattura del sacerdote domenicano, cosicché ben presto fu tradito, arrestato e torturato. Condannato alla decapitazione per essersi rifiutato di calpestare la croce, coronò il suo apostolato il 26 novembre 1839.
Emblema: Palma
Martirologio Romano: Nella città di Nam D?nh nel Tonchino, ora Viet Nam, santi Tommaso Ðinh Vi?t D? e Domenico Nguy?n Van (Ðoàn) Xuyên, sacerdoti dell’Ordine dei Predicatori e martiri, che furono decapitati insieme per decreto dell’imperatore Minh M?ng.
Fa parte del gruppo di 116 martiri, morti per la fede nel Tonchino (Vietnam) fra il 1745 e il 1862, a suo tempo beatificati a gruppi negli anni 1900 – 1906 – 1909 – 1951 e poi elevati agli onori degli altari come santi, tutti insieme, da Papa Giovanni Paolo II il 19 giugno 1988, commemorazione liturgica per tutti il 24 novembre.
Volendo sorvolare sull’inizio dell’evangelizzazione del Tonchino avvenuta nel 1627, bisogna dire che il cristianesimo si affermò quasi subito in quelle popolazioni, nel contempo già dal 1630 un editto del re, istigato da un bonzo, proibì al popolo la pratica della religione cristiana e già nel 1644 si ebbe il primo martire nel catechista Andrea Trung.
E così si andò avanti con i missionari indomiti che ad ondate arrivavano nel Paese e le persecuzioni provocate dal taoismo e buddismo che per almeno due secoli si sono avvicendate con schiere di martiri da parte cristiana, fino al 1862 quando il re Tu-Duc sanzionò il principio della libertà religiosa
per i suoi sudditi e cessarono così le persecuzioni.
Xuyèn a cui fu dato il nome di Domenico, fu ricevuto sin dalla giovinezza nella "Casa di Dio" dal beato padre Delgado, divenne sacerdote a 33 anni nel 1819, l’anno successivo entrò nell’Ordine dei Predicatori (Domenicani), condusse una vita operosa nell’apostolato percorrendo il vasto territorio del suo distretto, incurante dei pericoli della persecuzione di turno.
Collaboratore nella parrocchia di Pham-Phao ebbe poi l’incarico della parrocchia di Ke men, dove operò la conversione di molti tonchinesi; uguale successo ebbe quando dopo quattro anni, fu trasferito a Dong-Xuyen dove stette tredici anni.
Imperversando più forte la persecuzione di Minh Mang, cercò di operare più prudentemente perché fra i vari incarichi ricevuti vi fu anche quello di segretario del vescovo Ignazio Delgado e quindi dopo l’arresto dello stesso vescovo nel 1838, veniva ricercato quale supposto tesoriere. Su di lui fu posta una taglia e l’avidità di un pagano fece sì che fosse denunziato ai mandarini e il 18 agosto 1839, mentre era impegnato in una festa della comunità cristiana di Phu duong, venne preso e portato a Nam Dinh presso il capo della provincia.
Fu sottoposto a tormenti molto più dolorosi di altri cristiani arrestati, sia perché i mandarini esigevano la sua apostasia, ma anche per l’avidità di prendere l’oro di cui si riteneva fosse il custode.
Gli venne chiesto di calpestare la Croce in modo così brutale che gli venne un tremito per tutta la persona, dopo molte sferzate perse la parola, con tenaglie fredde o roventi gli veniva strappata la carne viva, nonostante tutto questo, rispondeva al mandarino Trinh Quang Khanh: "Nella vita come nella morte mai abbandonerò la fede".
Tanta fermezza provocò la sentenza di morte il 25 ottobre 1839; sentenza che fu confermata dalla corte a Nam Dinh e così il padre Domenico Xuyèn insieme con il beato Tommaso Dué, che era stato condannato qualche giorno prima, il 26 novembre 1839 salirono il patibolo per essere decapitati poco dopo mezzogiorno, aveva 52 anni di età, fu sepolto sul luogo del supplizio e traslato due anni dopo nel collegio di Luc Thuy.
Beatificato da Leone XIII il 27 maggio 1900.

(Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Santi Tommaso Dinh Viet Du e Domenico Nguyen Van Xuyen, pregate per noi.

*Beati Ugone Taylor e Marmaduke Bowes – Martiri (26 novembre)

Martirologio Romano:
A York in Inghilterra, beati martiri Ugo Taylor, sacerdote, e Marmaduc Bowes, che salirono al patibolo sotto la regina Elisabetta I, il primo, ancor giovane, per essere entrato in Inghilterra da sacerdote, l’altro, anziano, per averlo aiutato.
(Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria - Beati Ugone Taylor e Marmaduke Bowes, pregate per noi.

*Sant'Umile da Bisignano (Luca Antonio Pirozzi) – Confessore (26 novembre)
Bisignano, 1582 circa - novembre 1637

La sua intensa vita interiore lo rese quasi trasparente alla luce soprannaturale di Dio, e accadde così che quel frate indotto e semplice, ritirato e modesto, venisse ricercato da sapienti e da potenti desiderosi di ottenere da lui consigli di spirituale perfezione.
Due Papi, Gregorio XV e Urbano VIII, lo ebbero in grande considerazione e insisterono perché il frate di Bisignano restasse presso di loro a Roma, dove non gli sarebbero mancati, se li avesse appetiti, leciti onori e consolanti soddisfazioni.
Frate Umile preferì invece tornare nel suo convento nel cuore della Calabria, dove il Signore aveva preparato per lui un doloroso calvario. Infatti, gli ultimi tempi della sua vita non lunga furono segnati da penose sofferenze fisiche, che il francescano riformato sopportò, in silenzio, con indicibile pazienza.
Martirologio Romano: A Bisignano in Calabria, Sant’Umile (Luca Antonio) Pirozzo, religioso dell’Ordine dei Frati Minori, insigne per lo spirito di profezia e le frequenti estasi.
Sant’Umile da Bisignano appartiene al popolo dei "piccoli" che Dio ha scelto per confondere i "sapienti" e i "potenti" di questo mondo. A lui il Padre ha fatto conoscere, infatti, il suo mistero di condiscendenza, perché egli fu disponibile a lasciarsi afferrare dal suo amore, prendendo su di sé il giogo soave della Croce, che fu sempre per il francescano di Bisignano sorgente di pace e di consolazione. Nato il 26 agosto 1582 a Bisignano (Cosenza) da Giovanni Pirozzo e Ginevra Giardino, al battesimo ricevette il nome di Luca Antonio. Si fece ammirare fin da fanciullo per la straordinaria
pietà: partecipava alla Messa quotidiana, si accostava alla mensa eucaristica in tutte le feste, pregava meditando la passione del Signore anche durante il lavoro dei campi.
Divenuto membro della Confraternita dell'Immacolata Concezione, era comunemente indicato a tutti gli aggregati come modello d'ogni virtù. Nei processi canonici è ricordato il fatto che a chi gli diede sulla pubblica piazza un solenne ceffone, per tutta risposta presentò umilmente l'altra guancia. Verso il diciottesimo anno sentì la chiamata di Dio alla vita consacrata; ma, per varie cause, dovette differire per ben nove anni la realizzazione dei suoi propositi, impegnandosi tuttavia in una vita più austera e fervorosa.
Finalmente a ventisette anni entrò nel noviziato di Mesoraca (Crotone) dei Frati Minori, dove erano preposti alla formazione dei giovani due santi religiosi: P. Antonio da Rossano come maestro e P. Cosimo da Bisignano come Superiore del convento. Superate, per intercessione della Vergine, non poche difficoltà, emise la professione religiosa il 4 settembre 1610.
Svolse con semplicità ed esattezza le tipiche mansioni dei religiosi non sacerdoti, quali la questua, il servizio alla mensa della comunità, la cura dell'orto ed ogni altro lavoro manuale richiesto dai superiori.
Fin dal tempo del noviziato si distinse per la maturità spirituale e per il fervore nell'osservanza della Regola. Si dedicò con slancio all'orazione e Dio fu sempre al centro dei suoi pensieri. Fu obbediente, umile, docile, condividendo con gioia i vari momenti della vita di comunità. Dopo la professione religiosa, intensificò l'impegno nella via della santità. Moltiplicò le mortificazioni, i digiuni e lo zelo nel servizio di Dio e della sua comunità. La carità lo rese caro a tutti: ai frati, al popolo ed ai poveri, che aiutava distribuendo loro quanto la Provvidenza gli dava. Gli stessi doni carismatici, che ebbe in abbondanza, li esercitò per la gloria di Dio, per la costruzione del regno di Cristo nelle anime e per la consolazione dei bisognosi.
Ebbe fin da giovane il dono di continue estasi, tanto da essere chiamato "il frate estatico". Esse furono per lui occasione di una lunga serie di prove e di umiliazioni, a cui i superiori lo assoggettarono allo scopo di assicurarsi che provenissero realmente da Dio e che non vi fosse inganno diabolico. Ma tali prove, felicemente sostenute e superate, accrebbero la fama della sua santità sia presso i confratelli, sia presso gli estranei.
Fu dotato anche dei doni singolari del discernimento dei cuori, della profezia, dei miracoli e soprattutto della scienza infusa. Benché analfabeta e indotto, dava risposte sopra la Sacra Scrittura e sopra qualunque punto della dottrina cattolica, tali da far meravigliare insigni teologi. Venne sperimentato al riguardo più volte, con la proposta di dubbi ed obiezioni, da un'assemblea di sacerdoti secolari e regolari, presieduta dall'Arcivescovo di Reggio Calabria, da alcuni professori della città di Cosenza, in Napoli dall'inquisitore Mons. Campanile, alla presenza del P. Benedetto Mandini, teatino, e di altri. Ma fra Umile rispose sempre in maniera da sorprendere i suoi esaminatori.
È facile comprendere da quale stima fosse universalmente circondato. Il P. Benigno da Genova, Ministro generale del suo Ordine, lo condusse in sua compagnia per la visita canonica ai Frati Minori della Calabria e della Sicilia. Godé della fiducia dei Sommi Pontefici Gregorio XV e Urbano VIII, i quali lo chiamarono a Roma e, dopo averlo fatto rigorosamente esaminare nello spirito, si giovarono delle sue preghiere e dei suoi consigli. Si trattenne a Roma parecchi anni, soggiornando quasi sempre nel convento di San Francesco a Ripa, e, per pochi mesi, in quello di Sant'Isidoro. Soggiornò per qualche tempo anche a Napoli nel convento di Santa Croce, dove profuse il suo impegno nel diffondere il culto al Beato Giovanni Duns Scoto, particolarmente venerato nella diocesi di Nola.
Verso il 1628 fece domanda di poter "andare a patire" in terra di missioni. Avutane dai superiori risposta negativa, continuò a servire il regno di Dio tra la sua gente, prendendosi cura dei più deboli, degli emarginati e dei dimenticati (cfr. VC, 75)
La sua vita fu una "preghiera incessante per tutto il genere umano". Semplici le sue preghiere, ma sgorganti daI cuore. Avendogli chiesto il P. Dionisio da Canosa, per molti anni suo confessore e suo primo biografo, che cosa domandasse al Signore in tante ore di orazione, egli rispose: "Io non faccio altro se non dire a Dio: "Signore, perdonami i miei peccati e fa' che io ti ami come sono obbligato ad amarti; e perdona i peccati a tutto il genere umano, e fa' che tutti ti amino come sono obbligati ad amarti!".
Pronto sempre nell'obbedienza, coraggioso nella povertà, accogliente per l'esercizio della più lieta castità, Fr. Umile da Bisignano percorse un cammino di luce che lo condusse alla contemplazione dell'eterna Luce il 26 novembre del 1637, in Bisignano, nello stesso luogo, cioè, "dove aveva ricevuto lo spirito della grazia" (LM, XIV: FF 1239) e da dove egli "continua ad illuminare il mondo con i miracoli" (1Cel X: FF 525).
Fu beatificato da Leone XIII il 29 gennaio 1882.
Il Beato umile: colui che dipende totalmente da Dio.
Il mistero della vita del Beato Umile è certamente il mistero di un Dio che opera grandi cose nella sua creatura che crede in lui e si affida pienamente al suo amore, consacrando tutto, presente e futuro, nelle sue mani e ponendosi al suo esclusivo servizio (cf. VC, 17). Ma questa vita, nella quale risplende il fulgore della santità di Dio, è anche un mistero di disponibilità da parte di questa creatura che, nella sua profonda e convinta umiltà, ripete spesso: "Tutte le creature lodano e benedicono Iddio, io sono il solo che l'offende".
Umile da Bisignano invitato da Cristo a lasciare tutto e a rischiare tutto per il Regno di Dio, ha avvertito il fascino del Vangelo delle Beatitudini ed ha accettato di mettersi al servizio del disegno di Dio su di lui, impegnandosi a vivere come Francesco d'Assisi, "in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità" (S. Francesco d'Assisi, Regola bollata, 1: FF 75).
I poveri, infatti, a somiglianza di Maria, che ha fatto pienamente la volontà del Padre, sono liberi da tanti legami con le cose che passano e da tante ambizioni che procurano solo amare delusioni, e hanno uno spirito più pronto e disponibile. Un'anima veramente povera non si preoccupa, non si agita, non si disperde in molte cose, ma sa guardare in alto, lasciandosi affascinare da Dio e dal Vangelo del suo Figlio.
È la sorprendente saggezza che si rivela a noi, dopo 365 anni dal suo Transito, nella testimonianza di fede del Beato Umile da Bisignano.
Canonizzato il 19 maggio 2002.
Preghiere di Sant’Umile
Preghiera alla SS. Trinità
O Padre, o Figliuolo, o Spirito Santo, o Padre eterno, o Figliuolo sapienza del padre, o Spirito Santo amor, e fuoco divino, affogatemi in questo mare d'amore, e sommergetemi in questo Pelago, ed abissatemi in questo abisso d'amore, e della Santa Perfettione. O Santissima Trinità abruggiatemi, e consumatemi in quest'ardentissima fornace del vostro amore. O Santissima Humanità del mio Giesù pregate per me, come huomo, e datemi come Dio mio Creator, e Redentor questo Santo Amore.
Preghiera a Maria
O Maria Madre di Dio, ed Avvocata di tutti gli peccatori, ed in particolare di me povarello, più di tutti i peccatori vilissimo, à Voi ricorro Maria Vergine, Concetta senza alcuna macchia, o neo di peccato, Voi chiamo in aiuto, a Voi mi raccomando o Santa Maria, impetrami questo Amore, ottenemi questa perfettione.
Preghiera agli Angeli
O Angeli, o Arch'Angeli, o Dominationi Principati, o Potestà, o Virtù, o Cherubini, o Serafini aiutatemi a pregare per me, ed impetratemi colle vostre Sante preghiere questo Santo Amore. O Michaele, o Gabriele, o Rafaele, o Angiolo mio benedetto custode non mi abbandonate, ottenetemi questa Santa Perfettione, e questo S. Amore.
Preghiera a tutti i Santi
O Celesti, e benedetti Spiriti, con tutti li Santi, e Sante, e Corte tutta del Paradiso, io Vi prego, e scongiuro per li meriti di Maria sempre Vergine, Regina vostra. Per le viscere di Giesù Rè vostro, e vostro Dio, per le Sue Santissime piaghe, per il suo pretiosissimo Sangue, deh di gratia aiutatemi Spiriti Celesti, e Beati, ascoltate le mie voci, mirate il mio bisogno, guardate la miseria, e la mia bassezza, o Ministri, o Paggi, o Secretarij del mio Dio chiedeteli per me il Santo, e benedetto Amore, questa Santa Perfettione.
Salmo 50
O Padre mio celeste, io son quella peccatrice anima, e sfacciata meretrice, già sposa vostra, che cotanto hò offeso la Maestà Vostra infinita con tanti gravi peccati, ch'io non li posso numerare. Perdonate mio Dio questo povarello di frà Humile indegno riformato, mentre vi domanda perdono. Tibi soli peccavi, et malum coram te feci. Psal. 50. tibi soli peccavi.
Davanti al Tabernacolo
Colà anima mia, stà il Divino, e celeste Dio, sposo tuo, quello, che scende dal Cielo per visitarti: Colà vi è il tuo tesoro infinito: Colà stà tutto il Buono, tutto il vago, e tutto il bello del Paradiso; Colà stà la tua buona, e santa ventura. Il tuo honore, il tuo contento, la tua vita, e la tua Gloria eterna; miracolo ben mio, guardarlo gioia mia, amalo cuor mio, e ricevilo Anima mia; Qui t'inebriarai nella cella vinaria del tuo Giesù Amabilissimo; qui arderai, ed abbruciarai d'Amore verso Dio, ed il tuo prossimo; qui cominciaranno a morire le tue passioni in te; che più? qui cominciarai a morire, e trasmutati tutta, e ti trovarai tutta involta nelle Santissime Piaghe delli Piedi, e delle Mani, e nella caverna del Petto di Giesù tuo dolcissimo sposo; e legata non solo colle viscere, e racchiuse nel Chore istesso del tuo Giesù, come Iddio incarnato, nato, appassionato, morto, e resuscitato; tramandati ancora unita in unione ineffabile in fin coll'Anima del tuo Amante sposo nel più ascosto secreto della sua camera: Ma ti trovarai, (o gran cosa) tutta persa, tutta smarrita nell'immensissimo abisso delle Divina Essenza, e tutta unita dell'unione ineffabile con il tuo immensissimo, ed amabilissimo Iddio, tuo creatore, et eterno Glorificatore.
Alla Madonna delle Grazie
Maria Vergine Madre di Dio, io povarello peccatore vi ringratio infinitamente poiche vi sete degnata di raccogliere questi miei ossa in questa vostra Chiesa, persuadendomi grandemente, quanto sia la vostra cura di me, non solo custodirmi l'anima, ma anco conservarmi l'ossa di questo mio corpo: quale vivendo, havete permesso, e permetterete per sino alla morte, che sempre havesse la compagnia vostra Santissima, in particolare di questa vostra bellissima, e Santissima statua, della quale continuamente io ne sono stato divoto.

(Fonte: Santa Sede)
Giaculatoria - Sant'Umile da Bisignano, pregate per noi.

*Altri Santi del 26 Novembre  
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San
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